Il Pakistan rischia di esplodere (ed è un problema)

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Il Pakistan sta implodendo, dal punto di vista economico, ambientale, energetico e politico. E prima che vi chiediate come tutto ciò possa minimamente riguardarvi, mentre siete seduti in panciolle di fronte al vostro schermo del cellulare… sentite qua. Con i suoi circa 230 milioni di abitanti, il Pakistan è il quinto paese più popoloso al mondo. Il governo di Islamabad dispone di 170 testate nucleari, cinque in più rispetto all’anno scorso. Non c’è da stupirsi, dati i confini contesi con India e Cina in Kashmir, con l’Afghanistan in Pashtunistan, e l’ormai perenne rivolta interna in Balochistan. Qualora il paese si mostrasse davvero debole nei confronti dei propri competitor regionali o, peggio, versasse in bancarotta, le istituzioni pakistane impiegherebbero un attimo a essere cannibalizzate. Dimenticate Siria o Libia: il flusso in uscita di rifugiati e armi sarebbe semplicemente insostenibile, e potrebbe distruggere il già delicato ordine geopolitico dell’Asia centrale. So che la prospettiva che vi ho appena paventato può sembrare allarmista. Potreste dirmi che il Pakistan è un too big too fail, uno Stato troppo grosso per fallire. Ne siamo così sicuri? Tutto ha inizio nell’agosto del 2018, quando questo signore, Imran Khan, fervente religioso, filantropo, più volte testimonial per noti marchi di moda, ed ex giocatore di cricket di fama nazionale, vince le elezioni e diventa primo ministro. Il suo partito, il Movimento per la giustizia pachistano, fondato nel lontano ‘96, ottiene quasi la metà dei seggi disponibili in parlamento. Questo risultato ha dell’eclatante, perché per la prima volta, vede sconfitti entrambi gli eredi delle due dinastie politiche che hanno definito gli ultimi 50 anni del Pakistan: gli imprenditori, gli Sharif, e gli aristocratici, i Bhutto. Immaginate la storia contemporanea pakistana come una sorta di Trono di Spade dove, però, al posto di draghi e non-morti, i protagonisti in negativo sono esercito e colpi di Stato. Ve ne ho già parlato in un video dedicato, due anni fa, ma è bene rinferscarsi la memoria.

Fino al ‘47, Pakistan e India facevano parte di un’unica colonia appartenente al Regno Unito. In seguito a una divisione fatta a tavolino e ad cazzum canis dai britannici, la Linea Redcliffe, Nuova Dehli proseguì verso una discutibile democrazia. Islamabad, invece, perse il proprio leader ideologico, Muhammad Ali Jinnah, e nel ‘58 cadde nelle mani dei generali che avevano guidato il movimento indipendentista una decina d’anni prima. L’esercito procedette a imporre con la forza l’urdu come lingua nazionale, a varare leggi marziali e assassinare i politici sgraditi ai quadri militari. La ricetta perfetta per la pace. Difatti, nel ‘71 il Bengala, regione orientale del Pakistan, si oppose al regime centrale e chiese l’indipendenza. Scoppiò una guerra devastante, ma ne abbiamo parlato qui, e non mi ripeterò. Le forze armate pakistane vennero sbaragliate, e il Bengala dichiarò la propria indipendenza sotto il nome di Bangladesh. Artefici di questa figura fecale, i generali dovettero fare un passo indietro e cedere lo Stato a qualcuno che non imbracciasse un fucile per dieci ore al giorno. La scelta ricadde sul Partito popolare pakistano, guidato da Zulfiqar Ali Bhutto, figlio di un ex principe indiano che aveva sì preso parte ai moti indipendentisti contro gli inglesi, ma anche mantenuto le sue ricchezze e il suo status di nobile. Sotto Bhutto, Islamabad prese a sviluppare un proprio programma atomico in grado di contrastare quello indiano, e il paese andò incontro a un serrato processo di industrializzazione. I militari stettero al gioco per ben poco tempo. Già nel ‘75, la CIA paventò uno scenario in cui Bhutto sarebbe presto caduto per mano delle forze armate e che, tutto sommato, un futuro cambio al vertice avrebbe anche fatto piacere a Washington, considerate le simpatie del primo ministro per l’Unione Sovietica. Andò come preventivato, e il Pakistan si trasformò nel regno di Muhammad Zia-ul-Haq, intenzionato a fare l’amicone con gli Stati Uniti, a finanziare i mujhaedeen afghani e soprassedere su giusto qualche crimine contro l’umanità. Quando poi il politico con il volto più inquietante della storia si schiantò con il suo aereo (c’è chi dice un attentato), nel 1988 tornò una pseudo forma di democrazia in Pakistan e, con essa, i Bhutto. Benazir Bhutto, figlia di Zulfiqar Ali, servì come prima ministra per due mandati, dall’88 al ’90, e dal ’93 al ’96, intervallata da Nawaz Sharif, a capo della Lega Musulmana del Pakistan e di un importante conglomerato agricolo nazionale, nonché simpatizzante del radicalismo islamico e dell’Arabia Saudita. In entrambe le occasioni, Bhutto fu destituita dietro accuse di corruzione e riciclaggio di denaro. Non a caso, il suo ex marito, tale Asif Ali Zardari, detiene la poco lusinghiera nomea di Mister 10%, in riferimento alle tangenti pretese da politici, militari e imprenditori pachistani in cambio della protezione governativa. Quel che accadde più avanti, fidatevi, ha del grottesco. Con Benazir Bhutto fuori dai giochi, poi assassinata con un colpo di pistola nel 2007 nel bel mezzo di una processione tra la folla, Nawaz Sharif tornò in pompa magna, e credendosi chissà chi, nel ’99 tentò di licenziare il Capo di Stato Maggiore, Pervez Musharraf. Al che, Musharraf si risentì, attuò un suo personale colpo di stato e diede avvio a una terza era militare che perdurò sino al 2007. Quell’anno, sia Bhutto che Sharif fecero ritorno dai rispettivi esili, e indissero nuove elezioni. Il parlamento che ne emerse riuscì persino a completare il mandato previsto di cinque anni. Ah, il ruolo di presidente, cioè di garanzia dello Stato di diritto e della correttezza dei procedimenti fu affidato proprio a Mister 10%. Le successive votazioni, nel 2013, videro la vittoria della Lega Musulmana del Pakistan che, nell’esprimere il presidente del consiglio che avrebbe governato fino al 2017, indicò, ovviamente, proprio Nawaz Sharif. Ora, se questo giuoco di troni è riuscito a interessarvi abbastanza, avrete sicuramente individuato la costante, il leitmotiv – come piace dire a quelli “studiati” – il filo rosso che sta dietro ognuno dei mutamenti dello status quo. Come riporta la giornalista pakistana Atika Rehman, tutt’oggi, tra i compiti che spettano ai primi ministri, ce n’è uno in particolare su cui non si può soprassedere: accontentare l’esercito, e dare la parvenza che il Pakistan sia una democrazia sana. Non solo, occorre prestare un occhio di riguardo anche all’Inter-Services Intelligence, il servizio segreto che di fatto creò e spalleggiò i talebani in Afghanistan e che si ritiene abbia preso parte, sul finire del 2007, all’assassinio della stessa Benazir Bhutto. Perché, allora, i generali non potrebbero governare da soli? Mettiamola in altri termini. Ossessionata dal nemico indiano ma, soprattutto, ingolfata dal desiderio dei capi militari di ammodernare le capacità belliche nazionali e controllare il paese, tra il ‘70 e il 2000 Islamabad ha diretto ogni anno un quarto dell’intero budget statale alla difesa. Attualmente, questa spesa ammonta al 17,5%. Il Pak Fauj, l’esercito pakistano, conta 550mila uomini e quasi tremila carrarmati, che fanno del Pakistan, secondo il Global Firepower Index, la settima potenza militare mondiale. In parallelo, bisognava sostenere l’industrializzazione, l’educazione e il sistema sanitario, in un territorio soggetto a catastrofi naturali, dipendente dalle importazioni di cibo ed energia e attraversato da profondi conflitti sociali. E che succede, quando ti servono soldi, ma non ne hai a disposizione? Porti il cappellino e vai a chiedere una mano, spesso all’amico sbagliato. In totale, dal ‘58 al 2013, per finanziare i propri programmi il governo pakistano ha richiesto l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale in ben 21 occ asioni, tredici delle quali volte a un vero e proprio salvataggio. Questa scelta ripetuta nel tempo ha costretto Islamabad a indebitarsi sino al midollo, considerando che, al cambio attuale, 275 rupie pakistane equivalgono a un singolo dollaro. Ora come ora, il debito pubblico pakistano ammonta a 270 miliardi di dollari, mentre le riserve di denaro straniero – quelle con cui bisogna pagare le importazioni – ne contano a malapena quattro. R Nel corso della propria campagna elettorale, Khan, parlando sia in urdu che in inglese, ha esortato gli elettori a liberarsi dai padroni occidentali, gli Stati Uniti, e dei politici collusi con l’esercito, cioè i suoi avversari. Uno era Shehbaz Sharif, fratello di Nawaz, leader della Lega Musulmana. L’altro, Luigi Di Maio, detto anche Bilawal Bhutto Zardari, reggente del Partito Popolare, figlio di Benazir Bhutto e Asif Ali Zardari.  Khan piaceva praticamente a chiunque. Rappresentava la novità, l’uomo che si era fatto da sé, il self-made man al di fuori delle perverse logiche di potere, colui che, a sua detta, avrebbe tassato i ricchissimi, creato uno stato sociale, ristabilito le finanze del Pakistan e che, soprattutto, sarebbe morto piuttosto che scendere a patti con il tanto odiato FMI. Tuttavia, come ci insegna un fine statista, Thanos, la realtà è spesso deludente e meno idilliaca. Innanzitutto, è assai probabile che nel 2018 Kahn abbia ricevuto il supporto dell’esercito. Un mese dopo le elezioni, Shehbaz Sharif è stato casualmente arrestato per riciclaggio di denaro e, fa notare la giornalista Rehman, i media pakistani, storicamente vicini alle forze armate, hanno elogiato il nuovo primo ministro. In cambio, quest’ultimo ha ricompensato i generali con una pioggia di incarichi di governo. Inoltre, nel 2019, con il paese in rovina, Kahn, da che doveva ripudiare il Fondo Monetario, è ricorso per la ventiduesima volta… al FMI, ma come? Khan che fai?? E ha ottenuto un prestito di salvataggio da 6 miliardi di dollari.  PAKISTANContestualmente, ha richiesto all’Arabia Saudita altri 3 miliardi, e un miliardino agli Emirati Arabi Uniti, senza contare che, avendo aderito alla Nuova Via della Seta e ottenuto finanziamenti commerciali da Pechino, Islamabad era già in debito con la Cina di circa 7 miliardi di dollari. Un disastro annunciato. La sentite questa puzza di mer— puzza puzza puzza che puzza. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio del 2022, il Pakistan ha visto tagliata la propria catena di approvvigionamento di grano, importato in larga parte da Kiev, e di gas naturale proveniente da Mosca. Nel luglio successivo, una tremenda serie di alluvioni ha inondato due terzi del paese, distrutto infrastrutture, raccolti agricoli e le case di 30 milioni di persone, e causato danni per 40 miliardi di dollari. Questi due inconvenienti hanno contribuito a inasprire l’inflazione, oggi al 45% nelle aree rurali. Pressato dall’opposizione, a marzo 2022 l’ex giocatore di cricket aveva sfidato il parlamento a presentare una mozione di sfiducia nei suoi confronti, sperando che i generali gli avrebbero lanciato un salvagente. Nel più classico dei voltagabbana, l’esercito è rimasto inerme, e il 10 aprile entrambe le camere hanno deposto Khan. Il giorno dopo, indovinate un po’, uno Shehbaz Sharif fresco fresco di galera ha assunto la carica di primo ministro, che detiene tutt’ora. This is how mafia works. Immediatamente dopo la sconfitta, Khan ha dichiarato di essere stato vittima di una cospirazione occidentale capeggiata dagli Stati Uniti, e di averne persino le prove. Infatti, sosteneva, si era inimicato la Casa Bianca per non aver perorato la causa Ucraina, e per aver mostrato simpatie non solo per Putin, ma anche per Xi Jin Ping. Non contento, a maggio ha dato degli animali e degli ignavi ai generali pakistani, che non hanno perso tempo a diffondere dei suoi audio compromettenti in cui sembrerebbe fare delle porcherie telefoniche. [stiamo parlando di sesso?] Ultimamente, la vita di Khan è una montagna russa di emozioni. Il 3 novembre 2022, durante un comizio in Punjab, è scampato a un attentato, rimanendo ferito alle gambe, per il quale ha incolpato i servizi segreti. E per chiudere in bellezza, lo scorso 9 maggio è stato arrestato da un centinaio di ufficiali di polizia con le accuse di frode fiscale e corruzione, per poi venire rilasciato tre giorni dopo sotto indicazioni della Corte Suprema. Attualmente, Khan risulta di fatto bandito da ogni media del paese. Se pensate che, come al solito, finirà con una bella grigliata di paese, baci e abbracci, vi sbagliate. Stavolta, le carte in tavola sono diverse dal solito. L’accanimento politico e giudiziario non ha fatto altro che trasformare Khan in un eroe, un martire, agli occhi del pubblico. Secondo l’ultimo sondaggio realizzato a marzo Khan raccoglie il 60% dei consensi, specialmente tra i giovani, che rappresentano quasi la metà dell’elettorato. Il 9 maggio, dopo l’arresto, migliaia di protestanti hanno messo a ferro e fuoco le strade della capitale. Tornato a Lahore, la sua città natale, Khan è stato accolto da altrettanti sostenitori. La sua popolarità continua a crescere giorno dopo giorno. Ed ecco il problema, grosso come la moschea di Islamabad. Le prossime elezioni dovranno tenersi a ottobre o, al massimo, a novembre. Sempre che si voglia rispettare la costituzione. In tal caso, è probabile che gli sfidanti saranno gli stessi tre del 2018: Khan, il premier uscente Sharif e Bhutto Zardari. Come si comporteranno i generali, se Khan dovesse vincere un’altra volta? E cosa faranno i sostenitori di Khan, se dovesse perdere? I generali gli permetteranno di ricandidarsi? In caso contrario, sarà guerra civile? Una tale incertezza è deleteria per almeno tre motivi impellenti. Primo: nei prossimi tre anni, Islamabad dovrà ripagare 77 miliardi di dollari, tra debiti da estinguere con FMI e Cina che, per inciso, detiene il 30% del debito pakistano. Secondo: sono ancora venti milioni le persone in difficoltà a causa delle devastanti alluvioni. Terzo :il paese è a corto di energia, tanto che lo scorso gennaio un blackout generalizzato ha lasciato 230 milioni di persone al buio per 24 ore. E da chi importa energia il Pakistan? Principalmente Russia, Emirati, Iran e Cina. Dunque, cosa dobbiamo aspettarci? Verosimilmente, la Cina continuerà a salvare il Pakistan all’infinito, in ottica anti-indiana e, di conseguenza, antioccidentale. Ne è convinto anche Sharif, l’attuale primo ministro. Ma quel che è certo è che, se aumenterà, la crisi politica pakistana peggiorerà, la miseria economica del paese, dove in media un pakistano comune guadagna al mese 200$, se va bene. Io, comunque, in quanto cultore della post-apocalisse, un dubbio me lo sono posto. Nel caso peggiore e indesiderato in cui il Pakistan dovesse finire male, chi è che si impossesserà di quelle giusto 170 testate nucleari nascoste negli scantinati di Islamabad?