Il frutto che ha stravolto la storia del mondo: la banana

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C’erano una volta un uomo e una donna. Adamo ed Eva, questi i loro nomi, se la spassavano nell’Eden, si nutrivano di ciò che desideravano e, prima di andare a dormire, non mancavano di guardare un video di Nova Lectio. Un bel giorno, i due decisero di mangiare il frutto dell’unico albero dal quale il padrone dell’Eden non voleva che si cogliesse cibo. Il seguito del racconto lo conosciamo tutti, eccetto per un piccolo particolare: il frutto del peccato non avrebbe niente a che fare con una mela. Nel 1735, il botanico svedese Carl Nilsson Linnaeus – meglio conosciuto come Linneo, il padre della moderna classificazione scientifica degli esseri viventi – pubblicò il Systema Naturae. Tra le oltre 7000 specie vegetali presenti in questo compendio figura anche la musa, dall’arabo mawz, cioè banana. Il Corano, in effetti, descrive l’albero della conoscenza dell’Eden come un fusto dotato di frutti che sono impilati l’uno sopra all’altro e che assomigliano a delle dita. Se non avete mai visto un banano in fiore…beh, eccovelo qui. Tecnicamente, però, il banano non è un albero. Semplicemente perché quello non è un tronco, bensì un fusto. Ha delle radici, ma cresce a partire da un bulbo, il che rende la pianta di banana…l’erba più grande del mondo. E allora, come famo a coltivarla? Alcune specie vegetali sono in grado di riprodursi tramite partenocarpia. In parole povere, non occorre né l’impollinazione, né la fecondazione, ma basta tagliare una parte di pianta, comprensiva di bulbo, e innestarla a terra per far sì che si duplichi. L’effetto scontato è che la pianta duplicata produrrà frutti privi di semi e, anche se dovessero possederne qualcuno, sarebbero sterili. Avete presente quei granelli neri che di tanto in tanto sputano fuori mentre mangiate una banana? Ecco, quelli sarebbero i suoi semi. Le magie del progresso tecnologico, direte. Beh, non proprio. Una serie di indagini archeo-botaniche condotte a partire dal 2003 nella palude di Kuk – in Papua Nuova Guinea – ha evidenziato come già nel 6000 a.C. l’essere umano avesse imparato a coltivare banane selvatiche per mezzo della partenocarpia, e anche a ibridarle manualmente. Gli antichi papuani non maneggiavano le stesse banane del supermercato, bensì due loro antenate. Una era la musa balbisiana, un aspro e immangiabile bananone verde che chiameremmo platano. L’altra era la musa acuminata, giallognola, dalle dimensioni ridotte, leggermente più dolce, ma molto meno resistente alle intemperie. Entrambe, inoltre, erano dotate di semi, avevano bisogno di venire cucinate per poter essere consumate, ma al contempo contenevano parecchie calorie e crescevano in ogni momento dell’anno. Fu così che, nel corso dei secoli, la coltura ibrida per partenocarpia di queste due proto-banane riscosse successo in tutto il sud-est asiatico e anche nelle isole del Pacifico, fino ad arrivare in India. Probabilmente ve ne sarete resi conto: abbiamo appena distrutto un luogo comune di proporzioni bibliche. Le origini della banana non hanno assolutamente niente a che fare con il continente americano. Non solo. Il maggior produttore mondiale di banane è proprio l’India, con ben 30 milioni di tonnellate di frutto giallo raccolte ogni anno. Nel gigante asiatico ne esistono dozzine di varietà diverse, impiegate in curry e stufati, mangiate come fossero spezzatini, trasformate in patatine fritte o addirittura gratinate. Non ve l’aspettavate, vero? Il fatto è che le banane indiane vengono raramente commerciate al di fuori del subcontinente. Al contrario, l’Ecuador è il principale esportatore mondiale di banane, per un valore di tre miliardi e mezzo di dollari, seguito da Filippine, Costa Rica, Colombia e Guatemala. Vi sarà sorto un dubbio: eccezion fatta per le Filippine, come cavolo, – anzi, come banana – ci è arrivata, la banana, in America? Ce l’hanno portata gli uomini. Più precisamente, i pionieri delle banane furono commercianti e migranti musulmani che a partire dal settimo secolo d.C. navigarono attraverso l’Oceano Indiano con l’intento di fare pit-stop in Madagascar e poi nelle coste dell’Africa meridionale. Dapprima, le coltivazioni di banana proliferarono nei dintorni del lago Vittoria, e diedero vita al matoke, un platano che, una volta sbucciato, cotto e pestato, rappresenta l’alimento base degli ugandesi. Sì, la partenocarpia è un gioco da ragazzi. Per via di questo trucchetto, il futuro frutto giallo raggiunse l’Africa occidentale. Lì, la lingua wolof avrebbe coniato per lui un nuovo termine dall’etimologia incerta, ma ormai estremamente familiare: banaana. Come in ogni storia che coinvolga il continente africano che si rispetti, agli inizi del sedicesimo secolo portoghesi e spagnoli giunsero in Guinea. All’epoca, gli esploratori iberici credevano che l’albero di banaana guineano fosse semplicemente un fico dalle grandi foglie: un platano, dal greco platus, largo. Comunque, a non saper né leggere né scrivere optarono per farne incetta e trapiantarlo nelle proprie colonie nuove di zecca nel Nuovo Mondo. Lì, gli schiavi africani condotti dall’altra parte dell’Atlantico avrebbero aggiunto la banana alle altre economie di piantagione monoculturale di canna da zucchero, caffè, tabacco, e cacao. La tecnica era sempre la stessa: fai crescere la pianta, taglia una parte della pianta, trapianta la parte della pianta, mischiala con altre piante. Qualche tempo dopo, il Mar dei Caraibi avrebbe accolto due nuovi ospiti indesiderati: britannici, e francesi. Ed è qui che inizia la storia della “nostra” banana. Agli inizi del diciannovesimo secolo, il naturalista francese Nicolas Baudin, in visita in Indocina, incappò in una delle miriadi di varietà della musa acuminata. A differenza delle sue bisnonne, questa era resistente, tozza, dolce, e quasi priva di semi. Baudin la apprezzò talmente tanto da conservarne alcuni bulbi e trasportarli in Martinica, un’isola delle Antille dove le autorità di Parigi avevano istituito un giardino botanico. Lì, il cosiddetto “fico di Baudin” ricevette largo apprezzamento. Difatti, nel 1835 il botanico Jean François Pouyat decise di trasferirne alcuni esemplari in Giamaica, che al tempo era passata sotto l’egida inglese. I coloni locali confermarono che sì, quella banana dall’aspetto possente era davvero squisita e carnosa, anche previa cottura. Così, presero a riprodurne migliaia e migliaia di esemplari, e la rinominarono Gros Michel. Perché proprio Michel? È un mistero… alto almeno quattro metri, come il banano da cui la si coglieva. Nel 1870, tale Lorenzo Dow Baker, un capitano di mare americano che stava facendo ritorno negli Stati Uniti da un viaggio di lavoro in Venezuela, notò quelle piante mastodontiche, e decise di fermarsi proprio in Giamaica. Assaggiò la Gros Michel, e fiutò subito l’affare. Ne acquistò ben 160 caschi, li portò con sé intatti fino a Jersey City, in New Jersey, li vendette tutti a due dollari l’uno, e in totale ne guadagnò 6400. Bingo. Con quel denaro, Baker comprò un terreno nei pressi di Port Antonio, sempre in Giamaica, e lo disseminò di Gros Michel. L’ormai ex capitano, ora imprenditore, sperava di espandere il suo nuovo business in tutti gli Stati Uniti, ma non aveva fatto i conti con due difficoltà non indifferenti. Innanzitutto, benché la banana avesse cominciato a diffondersi a New York, Philadelphia e Boston, veniva ancora percepita come un cibo pregiato, destinato ai ricchi. In secondo luogo, quando vengono colte, le banane sono verdi, maturano in fretta e diventano gialle, e infine marciscono. Perciò sarebbe stato necessario trasportarle rapidamente, prima che si trasformassero in poltiglia nera. A risolvere entrambi i grattacapi pensò un grossista di Boston, nonché principale cliente di Baker, tale Andrew Preston. Preston suggerì a Baker di dotare le cabine delle proprie navi di grandi quantità di ghiaccio, in modo da mantenere fresca la frutta. Al contempo, però, gli propose di costruire dei magazzini frigoriferi lungo la costa statunitense, che a loro volta avrebbero dovuto riempire di ghiaccio i vagoni merce e far arrivare le banane sane e salve a destinazione. A conti fatti, Preston inventò il primo sistema di trasporto marittimo refrigerato su larga scala della storia. Banana motore del mondo. Nel 1885, Baker e Preston entrarono in società, e fondarono la Boston Fruit Company. Non pensiate che i due fossero gli unici imprenditori americani ad aver fatto fortuna grazie al frutto giallo. Nel 1871, un certo Minor Cooper Keith viaggiò in Costa Rica per supervisionare il progetto di una ferrovia da costruire sul versante caraibico del paese, che collegasse la capitale, San José, al porto di Limón. L’area disposta per il tracciato era ricoperta da una fitta e ostile giungla. Tuttavia, pur di portare a termine l’opera, Keith mandò a morire centinaia e centinaia di persone, tra lavoratori costaricani, immigrati italiani e anche due dei suoi fratelli. Peccato che, nel 1882, si rese conto di aver terminato unicamente persone da sfruttare e denaro. Poi, il colpo di genio. Tornò in Inghilterra, richiese un prestito di un milione di sterline e presentò al governo costaricano un’offerta allettante. Keith avrebbe costruito la ferrovia, come pattuito, senza venire pagato. Tuttavia, in cambio avrebbe potuto gestire l’infrastruttura per 99 anni, ottenere il controllo totale del porto di Limón e ben 300mila ettari di terreno esentasse lungo i binari. Cosa se ne fece? Beh, naturalmente seminò dei bananeti. In poco più di dieci anni, gli introiti derivati da queste ultime superarono quelli della ferrovia che, al contrario, nel 1899 gli costarono la bancarotta. A quel punto, Keith capì di dover puntare tutto sulle banane. Più precisamente, sulle Gros Michel della Boston Fruit Company, le più popolari d’America. Keith avrebbe offerto la terra e le sue doti da contrattatore e, in cambio, avrebbe giovato dell’inventiva e delle abilità imprenditoriali di Andrew Preston. Dall’unione tra le due attività, il 30 marzo del 1899 nacque la United Fruit Company, oggi conosciuta con il nome Chiquita ma, allora, nota come El Pulpo, La Piovra. Come potete immaginare, questo soprannome poco lusinghiero fa riferimento alle voraci acquisizioni della United Fruit in America Latina. Nei primi vent’anni del Novecento, l’azienda fu in grado di inglobare dozzine di competitor e assicurarsi, oltre a Giamaica e Costa Rica, decine di migliaia di ettari di terreno coltivabile in Colombia, Ecuador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, e a Panama. In soli dieci anni, la United Fruit riuscì a trasformare la Gros Michel, prodotta ovunque nei propri possedimenti, in uno degli alimenti più amati dagli statunitensi. Nel 1910, l’intera East Coast veniva ormai rifornita di caschi di banane e, in tutti gli States, se ne consumavano più di 40 milioni. Sin da subito, El Pulpo cominciò a comportarsi come un’entità parastatale. In primis, ottenne concessioni dai governi centramericani per costruire magazzini, ferrovie, strade e anche stazioni radio. Basti pensare che, nel 1901, il Guatemala affidò alla United Fruit la gestione del proprio servizio postale, e tre anni dopo le concesse una licenza della durata di 99 anni per erigere un sistema ferroviario e coltivare le zone a esso circostanti, pari a un quinto dell’intero terreno arabile guatemalteco. Entro il 1915, la United Fruit compose la cosiddetta Flotta Bianca, uno squadrone di ben 95 navi cargo in grado di trasportare mezzo milione di banane ciascuna, e, all’occorrenza, di venire riconvertite in crociere caraibiche. Solamente un decennio più tardi, il colosso americano arrivò a valere più 100 milioni di dollari, possedere in totale 400mila ettari di terreno, e impiegare 70mila operai agricoli. Nel 1913, Washington tentò di tassare ogni casco di banana con un nichelino, cioè cinque centesimi di dollaro. Nonostante sembri una cifra ridicola, dovete considerare che, all’epoca, un casco di Big Mike – così erano state ribattezzate – costava meno di un dollaro. Tutto sommato, la United Fruit avrebbe perso due milioni di dollari all’anno. Come avrebbe fatto, in questo modo, la povera e magnanima Company a fornire agli americani le tanto amate Big Mike a un prezzo contenuto? Fu esattamente questo il sentimento più diffuso tra i cittadini statunitensi. Qualche mese dopo, Woodrow Wilson evitò di tassare il frutto del popolo. Non fatevi distrarre da questa scaramuccia: States e United Fruit erano alleati per la pelle. I capoccioni della Casa Bianca avevano intenzione di controllare il commercio di beni come zucchero, caffè, cotone e banane. Lo dimostra il supporto politico e militare fornito dal nostro caro Teddy Roosevelt ai separatisti colombiani, che nel 1903 dichiararono l’indipendenza di uno Stato filoamericano all’interno del quale sarebbe stato costruito un famoso canale navigabile: Panama. Di fatto, le concessioni ottenute dalla United Fruit in America Latina furono favorite dall’intervento dei fieri Marines, finalizzato a istituire governi graditi agli States che ne difendessero gli interessi economici. Tra questi ultimi figuravano le banane, tant’è che gli Stati-fantoccio centramericani ottennero la fama di Banana Republics, Repubbliche delle Banane, cioè amministrazioni che non rompevano le scatole e permettevano alla United Fruit di incrementare le sue piantagioni. Il mercato delle Big Mike funzionava così bene per unico motivo: paghe da fame e condizioni lavorative pietose. Nella maggior parte dei casi, la United Fruit retribuiva i propri operai agricoli con delle sottospecie di voucher, che potevano essere riscossi in cambio di beni unicamente in delle strutture preposte dalla stessa azienda. Detta semplice: non li retribuiva. Un po’ come i nostri famosi tirocini. Con la differenza che le persone assunte – per così dire – sgobbavano sette giorni su sette, dalla mattina alla sera. Sì, proprio come i nostri tirocini. Sistema funzionante, per carità. L’enfasi del capitalismo. A meno che quelle persone non decidano di avanzare richieste assurde come un vero stipendio, o scelgano di compiere follie quali uno sciopero. Ecco, nell’Ottobre del 1928 circa 30mila “dipendenti” colombiani smisero di produrre. Il 6 dicembre, nella città di Ciénaga, l’esercito aprì il fuoco contro centinaia di operai riuniti in piazza in occasione della messa domenicale. L’ambasciatore statunitense a Bogotà, tale Jefferson Caffery, commentò l’accaduto in questo modo: “ho l’onore di riferire che il rappresentante della United Fruit Company di Bogotà mi ha confermato che ieri sono stati uccisi più di mille scioperanti”. E che onore. Se pensate che non si possa fare di peggio, beh… scivolate su una buccia di banana. Spostiamoci in Guatemala, circa 25 anni più tardi. In seguito all’esperienza da servizio postale, la United Fruit Company arrivò a possedere il 70% del terreno arabile guatemalteco. Non pagava alcun tipo di tassa, e ne sfruttava unicamente un quarto. Torneremo più avanti sulla questione. Comunque, tutto ciò non andava per nulla a genio al presidente del paese, Jacobo Arbenz. Nel 1952, Arbenz decretò che tutte le terre inutilizzate della United Fruit Company sarebbero state redistribuite ai contadini guatemaltechi. In cambio, l’azienda avrebbe ricevuto 600mila dollari. Già di per sé una cifra irrisoria, come riparazione. Di certo inferiore ai 16 milioni di dollari che, nel 1954, lo stesso Arbenz chiese al colosso delle banane come onere fiscale. I giornali statunitensi avevano già dipinto il presidente guatemalteco come un comunista, e la notizia di un tale affronto dovette incupire almeno tre persone, in quel di Washington D.C: John Foster Dulles, segretario di stato statunitense; suo fratello, Allen Dulles, direttore della CIA; e Ed Whitman, marito della segretaria del presidente Eisenhower. Cosa condividevano? Beh, rispettivamente, un passato da avvocato, uno da membro del consiglio di amministrazione, e un ruolo come responsabile delle pubbliche relazioni alla United Fruit Company. Insomma, affari di famiglia. I n men che non si dica, la Casa Bianca autorizzò la CIA a entrare in contatto con il colonnello Carlos Castillo Armas e addestrare centinaia di guerriglieri guatemaltechi. Questi ultimi attaccarono diverse città, e con il supporto logistico e radio della United Fruit sparsero la notizia che lo Zio Sam stesse per invadere su larga scala il Guatemala. Tanto bastò a spingere Arbenz a fare le valigie e dare le dimissioni nel giugno del 1954, quando venne sostituito proprio da Castillo Armas. E gli americani vincono. Tuttavia, per ironia della sorte il picco della United Fruit come padrona del Centroamerica coincise con il collasso del suo miglior prodotto, la Big Mike. Perché sì, cari miei, questa varietà di banana non esiste più dagli anni ’60. Ve la faccio semplice. Per viaggiare in un altro continente, sarebbe bene avere una copertura contro malattie che potreste trovare una volta atterrati, perché il vostro organismo non ha mai avuto modo di sviluppare anticorpi adeguati. Lo stesso principio si applica per qualsiasi essere vivente, e quindi anche per le piante. Se ne prendete una originaria del sud-est asiatico e la introducete in America, è probabile che quella pianta, nel nuovo ambiente, contrarrà malattie contro le quali non ha difese. Immaginate che quella pianta sia la musa acuminata, e che l’abbiate trasferita in Sud America. Aggiungeteci poi un altro fattore: secoli di partenocarpia e ibridazione, uniti alla commercializzazione e riproduzione su vasta scala di un’unica varietà sterile, la Gros Michel, non hanno fatto altro “clonare” sempre la stessa banana. Ponete infine che un fungo si insinui nelle radici anche di un solo clone che, essendo sterile, non potrà mai sviluppare difese. Il patatrac è fatto. Nella prima metà del Novecento, infatti, un morbo fungino scoperto in territorio panamense, per questo soprannominato malattia di Panama, prese a decimare le piantagioni di Gros Michel in tutto il mondo. I terreni che la United Fruit non sfruttava in Guatemala, infatti, risultavano infettati proprio da questo fungo, chiamato Tropical Race 1, che aveva già sterminato gran parte della produzione bananiera latino-americana. Occorreva trovare una varietà di musa acuminata che resistesse alla malattia. Ciononostante, la United Fruit se ne fregava altamente, limitandosi a irrigare i propri terreni per scacciare TR1, con l’unico effetto di farlo proliferare nell’umidità. Paradossalmente, la follia del colosso incontrò un freno per mano delle leggi antitrust statunitensi che non gli permettevano di imporre un monopolio sul commercio delle banane. Rimasta nell’ombra per mezzo secolo, l’unica competitor della United Fruit, la Standard Fruit, oggi meglio nota come Dole, individuò il sostituto perfetto della Big Mike. Si trattava della Cavendish, un esemplare di musa acuminata originario del sud-est asiatico, passato per le Mauritius e giunto negli anni ’30 dell’Ottocento fino al sesto duca di Devonshire, tale William Cavendish, che iniziò a riprodurla a Chatsworth House, nella contea inglese del Derbyshire. Quando, nel 1953, la Standard Fruit piantò le Cavendish in Honduras, si rese conto che questa era immune al TR1. Nel 1960, anche la United Fruit fu costretta a sostituirla alla Gros Michel, ormai dichiarata morta. Ma non senza qualche remora. Rispetto alla varietà precedente, la Cavendish risultava meno dolce, corposa e resistente. Inoltre, data la sua fragilità, non la si poteva più vendere a caschi. Non era detto che i consumatori occidentali l’accogliessero di buon grado. Nessun problema. Basta un po’ di marketing, e la banana va giù. Nel 1963, la United Fruit optò per vendere le Cavendish in delle comode cassette omologate, facilmente impilabili e resistenti agli urti. Per tracciarne la spedizione, le dotò di codici identificativi. Et voilà, l’origine delle cassette della frutta e del codice a barre. Non solo. La United Fruit decise di applicare un bollino su ogni singola banana. Ognuno di essi riportava la stessa dicitura, e la stessa immagine: una banana antropomorfa con un casco di banane in testa. Nel 1965, l’Ecuador divenne il primo importatore mondiale di banane. Due anni più tardi, la Cavendish raggiunse l’Europa. Infine, nel 1986 su quello stesso bollino venne stampata una giovane donna che ballava su uno sfondo blu e giallo, la Chiquita. Dal 1990, la United Fruit Company si chiama Chiquita Brands International, ha sede in Svizzera e assieme a Dole e Del Monte controlla il 65% dell’export mondiale di banane. La sola America Latina ne esporta 16 milioni di tonnellate l’anno, su un totale mondiale di 22. Ora capite perché abbiamo incentrato la nostra storia su questa esatta zona di mondo. E non crediate che, nel mentre, El Pulpo sia rimasto buono a godersi il proprio fatturato. Nel 1959, la rivoluzione di Cuba condusse al potere un certo Fidel Castro, che nazionalizzò tutte le piantagioni presenti sull’isola. Due delle sette navi che tentarono di invadere Cuba nel 1961, in occasione del famoso piano della CIA atto a scalzare Castro, appartenevano all’allora United Fruit Company. Nel 1974, i governi di Costa Rica, Panama e Honduras concordarono sull’imporre una tassa di un dollaro per cassetta su ogni frutto esportato. Al che, tale Eli Black, presidente della United Fruit, corruppe il presidente honduregno Oswaldo López Arellano con una tangente da due milioni e mezzo di dollari per alleviare il dazio. Un anno più tardi, Eli Black cadde dal 44esimo piano del Pan Am Building di Manhattan. La sua morte è ancora un mistero. Una volta cambiato nome in Chiquita, negli anni ’90, il colosso americano venne sfidato dalla concorrenza europea. È il periodo delle cosiddette Banana Wars, che videro la Chiquita distruggere e bloccare le navi cargo della compagnia britannica Fyffes, attiva nel commercio di banane nei Caraibi, e gli Stati Uniti fronteggiare l’Unione Europea, che aveva imposto dei dazi protezionistici nei confronti delle multinazionali statunitensi atti a favorire le proprie aziende. La situazione si risolse nel 2001, quando El Pulpo e lo Zio Sam ottennero l’abbattimento delle limitazioni europee al libero, anzi che dico, ultraliberissimo commercio. Per non farsi mancare proprio nulla, nello stesso arco di tempo Chiquita, Dole, e Del Monte – i tre dell’apocalisse – assieme a Hyundai, finanziarono segretamente le Autodefensas Unidas de Colombia, un gruppo terrorista legato alla Ndrangheta e impegnato in rapimenti, uccisioni e traffico di droga. Nello specifico, nel 2007 la Chiquita ha ammesso di aver fornito, tra il ’97 e il 2004, un milione e 700mila dollari affinché le AUC, desiderose di rovesciare il governo di Bogotà, non disturbassero le piantagioni colombiane. La punizione? 25 milioni di dollari da parte del dipartimento di giustizia statunitense. Giustizia. Ironico. A questo scoraggiante corollario di nefasti eventi si allegano altre immancabili controversie e accuse. La prima riguarda il danneggiamento di interi ecosistemi, non solo tramite il diboscamento, ma anche attraverso le monocolture, colpevoli di rendere il suolo sterile. La seconda, un must del nostro sistema economico, fa riferimento alle condizioni di chi lavora nei bananeti sudamericani. Giornate lavorative da 12 ore, stipendi in nero che rasentano la povertà ed esposizione costante a pesticidi e fertilizzanti. Alla faccia della sostenibilità. La banana ci piace. Alcuni non possono farne a meno. È proprio buona. Attualmente, la Cavendish rappresenta il 50% della produzione globale di banane con 50 milioni di tonnellate coltivate all’anno, e occupa il 90% delle piantagioni di Centro e Sud America e Filippine. Ma non aspettatevi che un frutto reso geneticamente debole nel corso dei secoli possa sopravvivere ancora a lungo. La malattia di Panama, in realtà, non è mai stata sconfitta. Il fungo responsabile dell’avvizzimento delle Gros Michel è ancora presente in acqua e suolo e, a differenza delle banane, si è evoluto sino a raggiungere una nuova variante: Tropical Race 4. Scoperto nel sud-est asiatico negli anni ’70, TR4 ha raggiunto il Mozambico nel 2013, e nel 2019 ha colpito la Colombia. Per trasportarlo basta un semplice stivale sporco di terra nel posto sbagliato. Stando a quanto riporta la FAO, più dell’80% delle varietà di banana coltivate nel mondo, tra cui la Cavendish, è debole al TR4. Ebbene sì, potenzialmente, la banana è a rischio estinzione. Per noi occidentali sarà una semplice perdita di carboidrati zuccherini, ma per altre 400milioni di persone in giro per il globo, la scomparsa del frutto giallo significherà malnutrizione. Pensiamo alla Somalia, dove la banana è un frutto accompagnato letteralmente con qualsiasi cosa. Qualora scienziati e biologi dovessero riuscire a far “evolvere” le banane, dovrebbero farlo in laboratorio, il che le classificherebbe come OGM. E quindi addio convenienza. E voglio vedervi, a riconvertire un mercato che vale 13 miliardi di dollari. Dunque, dunque: cosa accadrà? Le banane non esisteranno più? Purtroppo, non ho la sfera di cristallo, né sono un futurologo. Mi restano le mie presunte doti da narratore. Quindi, sì, ho una massima per voi. Come esseri umani siamo stati in grado di domare le banane, piegarle a nostro piacimento. In qualche modo, però, quelle piante ci si stanno ritorcendo contro. Vi ricorda qualcosa? Chi l’avrebbe mai detto, che dietro questo frutto allungato si nascondeva una storia così complessa e affascinante. Per aspera, ad astra.