Genocidio Cambogia

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17 aprile 1975. Qualche minuto dopo le dieci di mattina. Lê Đức Thọ, uno degli uomini di spicco del Partito comunista vietnamita, riceve una chiamata. Al telefono c’è Ieng Sary, il cosiddetto Fratello numero tre del Partito Comunista di Kampuchea. “Abbiamo preso Phnom Penh”, annuncia con fierezza Ieng. Lê Đức Tho, quasi non crede alle sue orecchie, e qualche ora più tardi si reca a Phnom Penh di persona. Lì, incontra Ieng, e si congratula con lui. Terminati i convenevoli, però, reclama la propria parte dell’accordo. Così, le truppe nordvietnamite attraversano liberamente il territorio cambogiano per lanciare l’offensiva finale contro il regime filoamericano di Saigon. Quel giorno, il Fratello numero uno, Saloth Sâr, non è a Phnom Penh. Si trova quaranta chilometri a nord-est, nei pressi di Oudong, l’antica capitale cambogiana. Qui, sorge il quartier generale dei Khmer rossi, poco più che un accampamento nascosto negli anfratti umidi della fitta giungla. 

Alle 10 in punto, arriva una comunicazione radio: “Phnom Penh è stata liberata”. Saloth non batte ciglio, né esprime gioia. Negli anni si è riferito a sé stesso in vari modi. Tuttavia, lo pseudonimo con cui tutti lo conosciamo, anche se non ha alcun significato, è uno soltanto: Pol Pot. 

Quella che vi racconteremo oggi è una storia che definire distopica sarebbe riduttivo: il genocidio cambogiano. Non esistono stime precise, ma si ritiene che nell’arco di meno di cinque anni, tra il ‘75 e il ‘79, il Partito Comunista di Kampuchea condusse alla morte, direttamente o indirettamente, circa 2 milioni di persone, vale a dire un quarto dell’intera popolazione cambogiana, il doppio di quanto avvenuto in Ruanda con il genocidio dei 100 giorni, ne abbiamo parlato in questi due video. Parleremo più avanti di quanto accaduto. L’argomento di oggi riguarderà vicende storiche, dispute internazionali e ideologie controverse, coinvolgerà vari personaggi e racconterà la vita di Pol Pot, definito uno dei dittatori più sanguinari di sempre. Seguiremo però una prospettiva ben precisa. Una macchina genocida non è mai responsabilità di un singolo individuo. Sono le contingenze storiche, a metterla in moto, assieme alle idee e al male forse insito nell’essere umano. Non possiamo, quindi, non abbracciare una visione d’insieme della storia cambogiana, che è allo stesso tempo genesi ed eredità dello sterminio.

Quando si guarda alla penisola indocinese, è difficile tracciare dei confini territoriali ben definiti. Nel corso dei secoli, l’intera area ha ospitato religioni, lingue e culture sfaccettate, e ha visto l’ascesa e la caduta di più autorità politiche. Tra queste spicca sicuramente l’Impero Khmer, un regno induista di lingua khmer, per l’appunto, che, al massimo della propria estensione, attorno al 1100, dominava su tutta l’attuale Cambogia, il suo nucleo principale, nonché vaste aree oggi appartenenti a Vietnam, Laos, Thailandia e Malesia.

La più importante eredità fisica dell’Impero Khmer è Angkor Wat, il “tempio della città”, un enorme e caratteristico edificio induista, poi buddhista, che non a caso è anche il simbolo dello Stato cambogiano. Tra il quindicesimo e il sedicesimo secolo, l’autorità dell’Impero Khmer fu progressivamente erosa, finché, nell’Ottocento, si ritrovò nella morsa di due entità politiche distinte: il regno siamese di Thonburi, a ovest, e la dinastia vietnamita Nguyễn, a est. La dinastia khmer pativa costanti incursioni e ingiustizie, relegata in una posizione che potremmo definire di vassallaggio. Stanco dei soprusi, attorno al 1850, il sovrano khmer Ang Duong chiese l’intervento di un re straniero, ritenuto particolarmente potente: Napoleone III. 

Già da qualche decennio, la Francia aveva infatti cominciato a mostrare interesse nei confronti di un’area, quella della penisola indocinese, che poteva trasformarsi sia in una fonte diretta di tè, caffè, carbone e caucciù, sia in un trampolino di lancio per ritagliarsi una sfera d’influenza in Cina. A Parigi dovettero quindi essere ben contenti quando, nel 1863, il figlio di Ang Duong, Norodom Prohmbarirak, accettò l’istituzione di un protettorato francese sulla Cambogia. 

Forte di questa concessione, la Francia conquistò diversi territori in Siam, scalzò la dinastia Nguyễn, e nel 1886 dichiarò la nascita di una nuova colonia. In un contesto simile, l’autorità dei re khmer venne limitata a quella di semplici marionette. Tuttavia, regnanti e alti funzionari cambogiani continuarono a godere delle proprie ricchezze e, soprattutto, dei legami che avevano instaurato nel tempo. Ecco… la nostra storia inizia nel marzo 1925. Ci troviamo a Prek Sbauv, un piccolo villaggio di pescatori sito a circa 170km a nord di Phnom Penh. Nella più grande delle case di legno dell’insediamento, tale Sok Nem, fervente e rispettata buddhista, dà alla luce un bambino dalla carnagione lievemente chiara. Lo chiama Sâr, letteralmente “pallido”. Il padre del neonato, Saloth Phem, è un contadino che possiede 50 acri di risaie, il che colloca la sua famiglia nelle fasce più agiate della società cambogiana. Saloth Phem, a sua volta figlio di un ex lealista antifrancese morto in un’imboscata, è uno di quei legami che re Norodom Prohmbarirak ha mantenuto saldi. 

Difatti, in cambio della concessione di benefici terrieri a Saloth Phem, il sovrano richiese che la sorella di quest’ultimo, Cheng venisse condotta a palazzo. Anche Sisowath Monivong, incoronato re di Cambogia nel luglio ‘28, continuò questa tradizione, esigendo che una delle figlie di Cheng, Meak, divenisse sua concubina. Ne deriva che la cugina di sangue del neonato Saloth Sâr è una favorita del re. Questo legame diretto con la corte khmer permette ai genitori di Sâr di sfruttare privilegi che spettano unicamente alle classi sociali più ricche e vicine alle autorità coloniali. 

E non è un caso se innanzitutto, nel ’34 spediscono il figlio presso il tempio buddhista di Wat Botum Vaddei. Qui, Sâr viene iniziato ai precetti del buddhismo theravada, una corrente rigorista e conservatrice, la più antica del buddhismo, impara a scrivere in lingua khmer, e si sottopone a una rigida disciplina monastica. Solamente un anno dopo, nell’estate del ’35, Sâr viene ammesso all’Ecole Miche, un istituto cattolico francese di recente fondazione. Non si mostra affatto uno studente profittevole. Certo, impara a leggere e parlare il francese, ma otterrà il diploma solamente nel ‘43, ormai diciottenne. Complici i suoi legami con la corte, viene subito ammesso all’istituto superiore francese di Kompong Cham. Qui, Sâr entra in contatto stretto con numerosi suoi coetanei, tra cui Khieu Samphan, che rincontreremo più tardi, e Ieng Sary, che abbiamo già avuto modo di conoscere. Uno dei migliori amici di Sâr, però, è Lon Non. Non è un personaggio rilevante, ma suo fratello maggiore, Lon Nol, lo è eccome. Ci arriveremo poi. In questo periodo, comunque, Saloth Sâr vive in una bolla, rispetto al cambiamento che sta invece attraversando la Cambogia. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale e l’assedio di Parigi ad opera della Germania hitleriana, nel ‘40, avevano indebolito la struttura coloniale francese. Difatti, nel ’41, il vicino Siam, l’attuale Thailandia, strappò alla Cambogia gran parte dei suoi territori nord-occidentali. Poco dopo, re Sisowath Monivong giunse a miglior vita. E nel designare un nuovo sovrano, il regime collaborazionista di Vichy optò per il nipote del defunto re, un ragazzo diciottenne che, pensavano i francesi, sarebbe stato facilmente manovrabile. Il suo nome era Norodom Sihanouk. 

La necessità di scegliere un monarca accomodante derivava dall’ormai palese insofferenza del popolo cambogiano nei confronti del regime coloniale. Nel ’42, i primi comunisti cambogiani ispirati dal vicino Vietnam presero d’assalto le strade di Phnom Penh. Per la prima volta, le persone comuni sentirono parlare della possibilità di una “nazione khmer” libera dal giogo francese. Peccato che, nell’arco di qualche mese, sarebbero arrivati i giapponesi. Il loro dominio durò all’incirca tre anni, prima che si ritirassero nell’aprile del ’45. A quel punto, il giovane re, Sihanouk, diede sfoggio di un inatteso coraggio, e dichiarò la nascita di un’effimera prima e indipendente Repubblica di Kampuchea. 

La parola Kampuchea deriva dal sanscrito kambojadeśa, letteralmente la “terra di Kamboja”, termine con cui le popolazioni del nord dell’India definivano le aree dove sorse il primo Impero Khmer, nell’800 d.C. Purtroppo per Sihanouk, la Francia liberata tornò nell’ottobre del ’45 e reimpose il proprio controllo sulla Cambogia . Anche se l’esperienza indipendentista visse giusto qualche mese, il suo impatto fu cruciale. In primis, le autorità francesi si mostrarono più accomodanti. Capirono di dover giungere a un accordo con re Sihanouk, e concessero delle elezioni democratiche. In secondo luogo, i comunisti cambogiani fuggirono in Thailandia, e finanziati da Bangkok si riunirono nel movimento indipendentista dei Khmer Issarak, cioè “liberi”, e lì rimasero in attesa fino all’anno successivo. 

A ogni modo, lontano dai tumulti di Phnom Penh, nel ’47, Saloth Sâr riesce a diplomarsi, e due anni più tardi vince una borsa di studio che gli permette di volare in Francia. A consegnargli il premio è il re in persona, Norodom Sihanouk. Giunto a Parigi nel gennaio del ’50 Sâr si iscrive a una scuola per ingegneri elettronici. Non è certo questa la sua vocazione. Tuttavia, il clima transalpino lo cambierà radicalmente. C’è però un fatto da ricordare: siamo agli inizi della Guerra fredda, e la Francia ospita il secondo partito comunista più grande dell’Europa occidentale. In particolare, a Parigi risiede un’importante associazione studentesca cambogiana, composta da giovani giunti in Francia grazie alle scuole cattoliche di Phnom Penh, che reclama l’indipendenza della nazione khmer. Qui Saloth Sâr comincia a partecipare attivamente ai comizi dell’associazione. Rincontra il suo ex compagno di scuola, Ieng Sary, e conosce il filosofo e linguista Keng Vannsak, figura di riferimento per tutti i cambogiani di Parigi. 

Proprio Keng Vannsak introduce Saloth Sâr a dei circoli ristretti, illegali, formati al massimo da sei persone, dove si leggono e commentano testi proibiti, rivoluzionari. Divenuto membro del cosiddetto Circolo Marxista, Saloth Sâr ha a che fare per la prima volta con autori come Marx, Lenin e Stalin. Non li comprende appieno. Probabilmente, perché in Cambogia, un paese prettamente agricolo, non esiste alcuna classe operaia o borghese. Piuttosto, Sâr acquisisce familiarità con un libro in particolare: Sulla nuova democrazia di Mao Zedong. Secondo il principio di Mao sulla nuova democrazia, per raggiungere il comunismo in una società coloniale occorre attraversare due fasi. La prima consiste nell’uniformare tutto il popolo sotto un’unica bandiera contro un nemico comune, l’imperialismo, e abbattere i vecchi valori feudali, borghesi e capitalisti. La seconda prevede invece la dittatura del proletariato. È proprio in base a questo principio che Mao criticò l’Unione Sovietica, secondo lui figlia di uno Stato imperialista, non coloniale, e dunque impossibile da uniformare a livello sociale. Infine, dopo aver letto La Grande Rivoluzione di Pëtr Kropotkin, Saloth Sâr capisce che la rivoluzione deve essere condotta senza compromessi, sulla base di un’alleanza tra intellettuali e contadini. Per il momento, lasciamo da parte queste informazioni e torniamo in Cambogia. Qui le prime elezioni democratiche del ‘46 videro emergere un Partito Democratico in netto disaccordo con Sihanouk. Infatti, il re e la corte khmer venivano percepiti come complici delle autorità coloniali, e per questo andavano rimpiazzati. Da un’altra parte, ad Hanoi, un certo Ho Chi Minh mobilitò un esercito di 28mila uomini contro le truppe coloniali francesi, dando inizio alla prima fase della Guerra d’Indocina, inizialmente limitata al solo Vietnam. 

All’inizio, politici e rivoluzionari cambogiani non percepirono l’utilità di quell’insurrezione. Tuttavia, quando nel ’49 la Francia accorpò la Cambogia al Vietnam per meglio controllare la colonia, ben compresero i risvolti della lotta armata. 

Ad ottobre, altra tessera del domino che crollò sui francesi, fu Mao Zedong, che proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese, e appoggiò apertamente la causa di Ho Chi Minh. I Khmer Issarak, nascosti nella giungla al confine con la Thailandia, si lanciarono contro le autorità coloniali francesi, dando vita a una durissima campagna militare

Fu soltanto nel ’54, dopo anni di guerriglie nella boscaglia, la Francia comprese di non poter più sostenere un conflitto di quel genere e così, durante la Conferenza di Ginevra, abbandonò l’Indocina. Alla dipartita dei colonizzatori, sorsero così quattro nuovi Stati indipendenti: Laos, Vietnam del Nord, Vietnam del Sud, e Cambogia. 

Per i comunisti si trattò in ogni caso di una sconfitta. Perché, sul fronte vietnamita, benché Hanoi fosse sostenuta dall’Unione Sovietica, francesi e statunitensi erano riusciti a ritagliarsi uno spazio d’influenza a Saigon, nel sud. Sul fronte cambogiano, invece, lo sgradito Norodom Sihanouk era rimasto re…ma a una condizione: elezioni democratiche, da tenersi nel ’55. Un grattacapo non da poco, per Sihanouk, bramoso di mantenere le proprie prerogative da sovrano. Infatti, il Partito Democratico, in teoria liberale e gradito agli Stati Uniti, godeva del supporto della maggior parte della popolazione. Al suo interno, però, erano confluiti diversi nazionalisti khmer tornati da Parigi, tra i quali anche Keng Vannsak. Per di più, in quanto monarca, Sihanouk non avrebbe potuto né partecipare, né mettere bocca sul risultato delle elezioni. 

Più che mai in pericolo, il re optò per una mossa da maestro: abdicò, designò come successore al trono suo padre, Norodom Suramarit e poté dunque fondare un proprio partito, il Sangkum. Gli uomini fedeli a Sihanouk intimidirono e zittirono i cambogiani con la violenza, e falsificarono le schede elettorali. Come risultato, il Sangkum ottenne l’80% dei consensi, e Sihanouk, da ex re, venne nominato primo ministro in quella che a tutti gli effetti era divenuta la sua personale dittatura. I comunisti cambogiani, non potendone più di un re mascherato da ministro, furono pronti a reagire e chiamarono in aiuto il Vietnam del Nord. Ho Chi Minh, però, sosteneva che ribaltare il governo della Cambogia appena divenuta indipendente sarebbe stato un male. Al posto dei francesi, infatti, c’erano ora gli statunitensi a controllare da lontano il sud-est asiatico, disponendo dell’alleanza di Vietnam del Sud, Thailandia, Corea del Sud e Giappone. 

Per il momento, suggeriva Ho Chi Minh, occorreva rinforzare i ranghi, e prepararsi in futuro a combattere gli States. Nulla sarebbe stato più profetico. Questo disinteresse permise a Sihanouk di reprimere e denigrare in pubblica piazza qualsiasi suo oppositore. E proprio parlando di oppositori, il caso volle che, giusto due anni prima, anche Saloth Sâr avesse fatto ritorno in Cambogia. Così come i suoi compagni, Saloth evitò di esporsi politicamente ma, una volta arrivato a Prek Sbauv, il suo villaggio natale, notò qualcosa a cui prima non aveva mai fatto caso: l’estrema differenza tra la ricca Parigi e i poveri villaggi di pescatori, tra la città, emblema del capitalismo, e la campagna. Contemporaneamente, Saloth si avvicinò a un’altra persona chiave, per la sua crescita personale: Keo Meas, figura chiave del comunismo cambogiano e dei Khmer Issarak. Grazie ai suoi legami con i Viet Minh, i guerriglieri vietnamiti che avevano lottato per l’indipendenza contro i francesi, Keo aveva viaggiato anche a Pechino, dove era stato il primo khmer a incontrare Mao Zedong in persona. Grazie a Keo, Saloth Sâr si convince che la rivoluzione deve essere portata avanti secondo regole precise, con fede assoluta, e va preparata con dovizia di particolari. 

Nel ’55, Saloth Sâr affitta così una casa in un distretto meridionale di Phnom Penh e, anche se non ha le giuste qualifiche, inizia a insegnare storia, geografia e letteratura francese in una scuola privata. Nel ’56, poi, sposa tale Khieu Ponnary, figlia di un giudice cambogiano in grado di metterlo in contatto con due individui quantomeno…interessanti. Uno è un predicatore buddhista, Ton Samouth. L’altro, un ex membro del partito comunista thailandese, Nuon Chea. Insieme a Ton e Nuon, Saloth comincia a discutere di come ribaltare il tiranno Sihanouk e salvare la Cambogia. I tre si riuniscono inizialmente nelle proprie case, spargono la voce, e attraggono persone interessate ai loro discorsi. Nel ’59, infine, nel capannone di una stazione ferroviaria, il piccolo movimento dà vita a una nuova formazione politica: il Partito Comunista di Kampuchea. L’obiettivo è quello di raggiungere la pace, con mezzi che sono tutt’altro che pacifici. Il partito accoglie ormai qualche migliaio di membri, e tra il settembre e l’ottobre del ’60 tiene una serie di conferenze a Phnom Penh in cui ribadisce la necessità di stringere un’alleanza con i Viet Minh, unico baluardo comunista dell’Indocina. 

La notizia però giunge repentina alle orecchie di Sihanouk, che ovviamente bandisce l’organizzazione e fa di tutto per stroncarla. Quello era un periodo storico molto delicato per Sihanouk. Nel ’59, infatti, un tentato colpo di Stato gli aveva fatto credere di essere oggetto delle trame della CIA.

Benché la realtà dietro al cosiddetto “complotto di Bangkok” sia ancora un mistero, tanto bastò per epurare diversi suoi fedeli. Nel ’62, sempre più paranoico e meno interessato a una qualche parvenza di legittimità, Sihanouk destituì suo padre dalla carica di re, modificò la costituzione e si autoproclamò Capo di Stato a vita. [Mi dispiace, ma io so io e voi non siete un ca—] 

Poco dopo, stanco delle continue opposizioni al suo potere, Sihanouk decise di distruggere definitivamente gli oppositori comunisti. Ton Samouth fu catturato, torturato e ucciso. Nuon Chea, invece, fuggì. A guidare i khmer rivoluzionari era rimasto il solo Saloth Sâr. Tuttavia, non dobbiamo dimenticarci di un fatto importante: in quel preciso frangente, mentre tutto questo accadeva, a est della Cambogia, il regime comunista di Hanoi, nel vietnam del nord, si trovava impegnato in una guerra di liberazione contro il governo filooccidentale del Vietnam del Sud. A questo scopo, i comunisti nordvietnamiti si erano dotati di una nuova milizia, i Viet Cong, che stazionava ai confini del Vietnam del Sud. Nella vicina Cambogia, in fuga dalla repressione di Sihanouk, Saloth Sâr e Ieng Nary ritennero dunque saggio raggiungere uno degli accampamenti Viet Cong sulle rive del fiume Mekong. Vedendo incrementare le proprie fila, Saloth, Ieng Sary e Nuon Chea capirono di potersi organizzare per rappresentare una vera e propria sfida al governo centrale cambogiano. Per far ciò, prima di tutto, andavano chiariti i rapporti con il Vietnam del Nord, perché, come detto, Hanoi stava già combattendo una guerra dal 55, quella del Vietnam, che nel ’64 aveva visto la discesa in campo degli Stati Uniti. 

Ora, nella verità dei fatti, il partito comunista nordvietnamita non desiderava affatto che il governo di Sihanouk cadesse, semplicemente perché una Cambogia instabile avrebbe significato l’apertura di un altro fronte di guerra, e potenzialmente un accerchiamento. L’aiuto di Hanoi, per i progetti dei comunisti cambogiani, era dunque escluso. Così, nel ’65 Saloth e Keo Meas, il primo khmer a incontrare Mao, viaggiarono fino a Pechino e chiesero consiglio alla Cina. Lì, i funzionari della Repubblica Popolare si mostrarono pronti a sostenere un’eventuale rivoluzione cambogiana e offrirono addirittura il supporto materiale. Saloth tuttavia, anche per divergenze ideologiche, rifiutò l’aiuto cinese. Chiamatela megalomania o schizofrenia, ma Saloth si rese conto di non voler vincolare il successo della missione a una nazione terza, non voleva essere debitore dell’aiuto altrui per riunire tutta la Cambogia sotto il segno di Angkor Wat, il simbolo dell’antica gloria imperiale. 

Nell’ottobre del ’66, con ormai 5mila insorti tra le proprie fila, si assistette comunque alla nascita del Partito Comunista di Kampuchea. I suoi membri avrebbero combattuto con o senza il supporto di Hanoi e di Pechino, indipendentemente da come la pensassero vietnamiti e cinesi. Nel frattempo, rintanato nella capitale cambogiana, l’ex re dittatore Sihanouk osservava la situazione da lontano. Non si aspettava affatto che una milizia che contava qualche migliaio di persone provenienti dalla giungla potesse rappresentare un pericolo. Li etichettò con un nome dispregiativo, che però sarebbe stato destinato a divenire tristemente famoso: Khmer Rouges, i Khmer Rossi. 

Quella che sembrava una piccola palla di neve, finì però con l’ingigantirsi presto. Il 18 gennaio ’68 il Partito Comunista di Kampuchea lanciò la propria offensiva a sud di Battambang, nell’ovest del paese. Sihanouk rispose prontamente, richiamando al governo un suo amico fidato, un politico di destra che era stato già primo ministro e che era noto per la propria violenza spietata: Lon Nol. Sì, il fratello dell’ex migliore amico di Saloth Sâr. Il mondo è proprio piccolo. Sotto il comando di Lon Nol, l’esercito cambogiano bombardò a tappeto l’est del paese, e uccise sommariamente centinaia di persone nei villaggi, in cerca dei ribelli comunisti. 

Sihanouk cominciò a pensare seriamente che gli Stati Uniti fossero il male minore. Si sbagliava. Il 20 gennaio ’69 Washington accolse un nuovo presidente: Richard Nixon. Sebbene Nixon venga ricordato come colui che favorì il disimpegno delle truppe americane nel sud-est asiatico, i suoi primi anni di governo raccontano una storia diversa. Ansiosi di porre fine con la forza al conflitto in Vietnam, Nixon e il suo entourage, tra cui il ben noto Kissinger, optarono per estendere i bombardamenti dei B-52 anche a due paesi che formalmente non erano in guerra, Laos – di cui abbiamo parlato in questo video – e per l’appunto Cambogia, per distruggere le vie di rifornimento dei Viet Cong. I bombardamenti aerei sortirono due conseguenze. La prima: causarono decine di migliaia di vittime tra i contadini cambogiani. E, com’era ovvio che fosse, i sopravvissuti di questi bombardamenti indiscriminati andarono a ingrossare le fila dei Khmer rossi. La seconda: i nordvietnamiti inviarono armi e approvvigionamenti all’esercito di Saloth Sâr, potenziandolo. Davanti a questi due svantaggi, Sihanouk protestò fermamente contro i bombardamenti americani, e, credendo di poter sbrigliare da solo la matassa, viaggiò fino a Pechino per chiedere a Mao Zedong di convincere i nordvietnamiti ad arrendersi agli americani. Un po’ contorto, come piano. Infatti, abbandonare il paese fu un errore madornale. In sua assenza, gli agenti della CIA stazionati a Saigon entrarono in contatto con Lon Nol. Entrambi avevano lo stesso obiettivo, distruggere i comunisti, e Lon vide finalmente l’occasione di scalzare l’uomo a cui aveva fatto da ombra per vent’anni. Nel marzo ’70, Lon Nol, così, prese a governare una nuova Cambogia pro-statunitense, massacrò migliaia di vietnamiti presenti nel paese, e dichiarò guerra al Vietnam del Nord.

Quanto accadde nelle settimane successive suggellò un’alleanza inaspettata, segno della disperazione e del delirio di onnipotenza di un uomo troppo attaccato al suo trono. Un Sihanouk destituito, orgoglioso e incapace di lasciar andare il potere che deteneva da ormai trent’anni, comprese che c’era un unico modo per riprendere la Cambogia ora in mano a Washington: supportare i Khmer rossi. Con Mao Zedong come tramite, i destini di Saloth Sâr e Norodom Sihanouk si incontrarono ancora una volta. Le forze pro-monarchiche, a favore di Sihanouk, confluirono quindi in quelle rivoluzionarie di Saloth, e agli inizi del’72, il Partito Comunista di Kampuchea arrivò a contare la bella cifra di circa 35mila effettivi, finendo per controllare tutto il nord-est della Cambogia, in pratica la metà del paese. 

Orbene, come ricorderete dall’incipit di questo video, la presa di Phnom Penh sarebbe arrivata tre anni dopo, nel ‘75. Testi e documentari ci ricordano che da quel momento ebbe inizio il genocidio cambogiano. Quando si parla di questo orribile periodo storico, però, va fatta una considerazione cruciale. Il regime di terrore dei Khmer Rossi non ebbe inizio dal nulla. Al contrario, i semi di questo genocidio vennero fecondati proprio nei tre anni che precedettero l’ascesa dei Khmer Rossi. Innanzitutto, fu probabilmente nel ’70 che Saloth Sâr cominciò a identificarsi con il suo più noto pseudonimo rivoluzionario: Pol Pot. Lo stesso fecero anche i suoi due più fidati alleati, Nuon Chea e Ieng Sary. Infatti, per semplicità, ci siamo riferiti fin dall’inizio a queste persone con il loro nome da battaglia. Lo scopo degli pseudonimi era semplice: organizzare il partito secondo una struttura piramidale, il cui vertice doveva rimanere sconosciuto ai sottoposti di più basso rango. Tra il ’70 e ’72, Pol Pot e Nuon Chea, considerato l’ideologo dei Khmer Rossi, viaggiarono di accampamento in accampamento assieme a gruppi di soldati per proteggere i contadini, fornire loro cibo e riparo, e guadagnare il loro supporto e la loro stima. Questo meccanismo mirava a favorire l’applicazione il principio della nuova democrazia di maoista memoria, che prevedeva l’uniformazione della popolazione sotto un unico obiettivo rivoluzionario. 

Nel caso specifico, ogni cambogiano avrebbe dovuto emulare la vita contadina, cioè la classe sociale più diffusa nel paese. 

Nelle cosiddette zone liberate, i sottoposti i Khmer rossi espropriarono le terre dei coltivatori che ne avevano di più, abolirono il commercio e impedirono l’utilizzo di automobili e gioielli. Costrinsero poi gli abitanti a indossare un’uniforme nera e una sciarpa bianca e rossa, cioè l’abbigliamento di Pol Pot e compagni. 

I nuovi contadini avrebbero dovuto coltivare riso e uccidere il bestiame unicamente per il sostentamento delle comunità locali. Chi si opponeva a questa visione, cioè minoranze musulmane e mercanti cinesi, veniva giustiziato e gettato in delle fosse comuni. All’inizio, gli abitanti dei villaggi e gli stessi soldati ritennero quelle esecuzioni un male necessario, giustificato. Nel ’73, i vertici del Partito Comunista di Kampuchea ordinarono la collettivizzazione delle terre nei villaggi sotto il loro controllo, dove introdussero anche la coscrizione obbligatoria e una sorta di polizia interna che requisisse determinate quote di cibo. 

Ad oggi tutto ciò può sembrarci assurdo. Eppure, i cambogiani delle aree rurali, cioè circa un quarto dell’intera popolazione, avevano vissuto decenni di costante impoverimento in favore dell’autorità coloniale. Passò dunque l’idea che aderire alla rivoluzione, senza contestarla, fosse soltanto un passo avanti, un sacrificio che, infine, si sarebbe tradotto in un beneficio. Poco dopo, le pedine cominciarono a muoversi per porre scacco matto. Proprio nel ’73, Lê Đức Thọ, leader dei comunisti di Hanoi, e Henry Kissinger, il segretario di Stato americano, raggiunsero un accordo per la cessazione delle ostilità in Vietnam. La tregua durò ben poco, ma fu un segno premonitore per il governo di Lon Nol in Cambogia. Di lì a poco, infatti, sotto la supervisione di Unione Sovietica e Cina, Lê Đức Thọ e Pol Pot giunsero a un accordo di svolta. Le truppe vietnamite avrebbero aiutato il Partito Comunista di Kampuchea a conquistare Phnom Penh; Norodom Sihanouk sarebbe tornato in Cambogia come figura di garanzia; in cambio i vietnamiti avrebbero attraversato indisturbati la Cambogia, accerchiato il Vietnam del Sud e attaccato Saigon. Quest’ultimo evento si verificò il 29 aprile del ’75. Ormai, anche i muri hanno visto almeno una volta nella vita le foto che ritraggono la fuga precipitosa degli statunitensi dalla città. Diciassette giorni prima, però, in 300mila tra Khmer Rossi, Viet Minh e Viet Cong stazionarono al di fuori della capitale della Cambogia. 

Lon Nol riconobbe di aver perso e gli Stati Uniti evacuarono i connazionali ivi presenti. “Phnom Penh è stata liberata”, riferì Ieng Sary al suo superiore. Era l’inizio della rivoluzione. 

Non appena entrati a Phnom Penh, i Khmer Rossi diramano un’allerta. Sta per arrivare un raid aereo americano, dunque è bene che gli abitanti della città fuggano in massa verso le campagne. Si trattava di una menzogna, una scusa per applicare un ulteriore misura a favore della rivoluzione. 

Nell’ottica di Pol Pot, infatti, Phnom Penh rappresenta l’emblema di un sistema da distruggere, quello coloniale e capitalista. Nessun cambogiano, ad eccezione degli intellettuali a guida della rivoluzione, dovrà più risiedervi. Così, ben due milioni e mezzo di persone, sulle sette totali che abitano l’intera Cambogia, vengono costrette a migrare verso le campagne. Molte di loro sono malate, non hanno cibo, e non sanno dove andare. Nel trasferimento, ne muoiono ventimila. All’arrivo di Pol Pot, tutti i leader del Partito Comunista si riuniscono nella Pagoda d’argento, uno sfarzoso palazzo reale. Da lì, convengono di dover aumentare la produzione agricola del paese. Il denaro viene abolito, e la società cambogiana organizzata in cooperative rurali. Chi non rispetta le regole e non lavora duro, dimostrandosi un “cattivo elemento”, va incontro alla morte e alla sepoltura come concime nei campi di riso. Furono queste le premesse per la nascita della Kampuchea Democratica, se così vogliamo chiamarla. 

Sin da subito, i Khmer rossi si riorganizzarono secondo uno schema che il giovane Saloth Sâr aveva già sperimentato durante il periodo del Circolo Marxista. Un organo direzionale composto da sei persone: i fratelli. Pol Pot assunse il ruolo di Fratello numero uno. Nuon Chea divenne il numero due, e Ieng Sary il numero tre. Il Fratello numero quattro, Khieu Samphan, da tempo in politica, Pol Pot l’aveva incontrato ai tempi del liceo francese. A coprire il posto di numero cinque fu Ta Mok, “il macellaio”, capo delle forze armate. L’identità del numero sei è sconosciuta, ma si sa che la lista dei fratelli proseguiva ben oltre. 

Difatti, Son Sen, il ragno dietro la tela dei servizi segreti cambogiani, veniva riconosciuto come fratello numero 89. Al di là delle reminiscenze orwelliane o da loggia p2, anche questa denominazione serviva a nascondere il più possibile l’identità dei leader comunisti. In pochissimi, infatti, sapevano che Pol Pot fosse il capo. Riguardo alla forma di governo, la Kampuchea Democratica era governata da un Presidium che fungeva da Capo di Stato, da un parlamento, e da un primo ministro. Quest’ultimo incarico spettò a Pol Pot che, inizialmente, fu costretto ad affidare il Presidium a una persona a cui ormai, aveva legato la sua vita: Norodom Sihanouk. Sempre lui, sì. Occorreva infatti dimostrare alla comunità internazionale, leggasi Stati Uniti, che il nuovo governo della Cambogia non avrebbe rappresentato alcun pericolo, e che avrebbe invece seguito la saggia guida di un abile statista come Sihanouk. Se lui era saggio io sono John Cena. Non fu certo un caso  che, quando lo stesso Sihanouk si dimise dalla sua carica nella speranza di fuggire nuovamente, i Khmer rossi ben pensarono di confinarlo agli arresti domiciliari, servito e riverito come un re, per evitare che fomentasse nuove rivolte, e sostituirlo con Khieu Samphan, il Fratello numero quattro

A pensarci oggi, quella che toccò a Sihanouk fu di gran lunga la sorte migliore, tra gli oppositori politici del regime. Anzitutto, i Khmer rossi presero a indottrinare o, in caso di fallimento, eliminare fisicamente, i monaci buddhisti. Difatti, lo stesso Pol Pot, educato da monaco in tenera età, temeva la religione come oppio dei popoli e veicolo di rivolta, riteneva che il buddhismo theravada, conservatore, risultasse dannoso per la nuova democrazia, in quanto motivo di disomogeneità della popolazione. Fu poi il turno delle minoranze etnico-religiose, quelle cinesi, vietnamite e musulmane, anch’esse colpevoli di rendere variegata la società. Il paese, del resto, poteva raggiungere la libertà unicamente ricongiungendosi all’antico e potente Impero Khmer, creato da khmer, e abitato da khmer. 

Anche l’educazione, doveva essere imperniata su questo concetto. Una volta raggiunta l’età di sette anni, i bambini venivano requisiti dalle loro famiglie per venire addestrati a combattere, e i più giovani utilizzati come guardie e controllori delle cooperative rurali. Per quanto riguardava i contadini, cacciare o anche raccogliere bacche dagli alberi veniva considerato come un comportamento individualistico e punibile. Qualsiasi medicina che non fosse tradizionale fu proibita. Tuttavia, il cibo cominciò a scarseggiare sin da subito in tre quarti dell’intero paese, e la malaria imperversò tra le fasce più deboli della popolazione. Naturalmente, ai vertici del Partito Comunista, cioè gli intellettuali a guida della rivoluzione, era consentito mangiare qualcosa di diverso dal riso concimato con carne umana, potevano pure curarsi all’estero, tant’è che Pol Pot si recò più volte a Pechino per tenere sotto controllo un tumore al pancreas. Considerate, comunque, che non tutti all’interno Partito Comunista approvavano le modalità della rivoluzione. In migliaia, tra disertori e semplici fuggitivi trovarono riparo in Thailandia, o in Vietnam del Nord. Conscio di questa realtà e credendo di essere soggetto a un complotto, Pol Pot ordinò più volte delle epurazioni di massa. Non solo. Istituì per tutto il territorio cambogiano circa 150 prigioni allo scopo di far confessare e redimere i traditori del Partito. Di gestire queste strutture, spesso scuole riconvertite, furono incaricati i Fratelli 5 e 89, Ta Mok e Son Sen. 

La prigione più famosa è il cosiddetto Ufficio di Sicurezza 21, o S-21, di Phnom Penh, dove tra il ’76 e il ’79 vennero recluse circa 20mila persone. Ne uscirono vive unicamente dodici. Dodici. A descrivere con precisione le atrocità dell’S-21 sono almeno tre persone: Dith Pran, internato in quanto giornalista, Vann Nath, il cosiddetto “pittore dei Khmer rossi”, vivo solo grazie alla capacità di disegnare dei ritratti di Pol Pot, e Kang Kek Iew, il direttore stesso dell’S-21. Per stessa affermazione di Kang, detto “Compagno Duch”, a partire dal ’77 il campo ricevette più di mille persone al mese, tra soldati, funzionari governativi, studiosi, medici, insegnanti, monaci e lavoratori comuni, tutti accusati di spionaggio. I prigionieri venivano incatenati alle pareti, privati del sonno, picchiati, torturati con scosse elettriche e metalli roventi, soffocati con sacchetti di plastica, e abusati sessualmente. Tutto ciò, chiaramente, avveniva nell’ombra. Tuttavia, già dal 75, al momento della loro ritirata, gli Stati Uniti non avevano disdegnato di sostenere qualsiasi forza politica in grado di indebolire l’ormai vittorioso governo comunista in Vietnam. All’epoca lo stesso Kissinger ammise dinnanzi al ministro degli esteri thailandese Chatichai che un avvicinamento con i Khmer rossi fosse il male minore rispetto al Vietnam. “Sono delinquenti assassini”, disse Kissinger, “ma non lasceremo che questo ci ostacoli, siamo pronti a migliorare le relazioni con loro”. Faccio i miei auguri sinceri a Kissinger per aver compiuto 100 anni pochi giorni fa [applausi]. Lo stesso ex consigliere per la sicurezza nazionale americana, Brzezinski, dichiarò nel 79 di aver suggerito alla Cina di supportare Pol Pot in funzione anti-vietnamita, pur essendo a conoscenza delle nefandezze commesse dal numero uno cambogiano. “Pol Pot era un abominio”, disse Brzezinski, “ma noi strizzammo l’occhio ai cinesi. Noi non avremmo mai potuto sostenerlo, ma la Cina e la Thailandia sì”. 

Dal canto suo la Cina allora non aveva molta scelta. Era da poco uscita dalla disastrosa rivoluzione culturale maoista e gli aiuti finanziari degli Stati Uniti facevano comodo, anche per far fronte alla minaccia russa a nord. Russia che, lo ricordiamo, era un alleato chiave per il Vietnam. E quindi, benché quanto stava accadendo al suo interno fosse un segreto di Pulcinella, la Kampuchea, era nei fatti un regime isolato dal resto del mondo. Gli unici due capi di Stato stranieri accolti nel paese furono il dittatore birmano Ne Win e il leader comunista rumeno Nicolae Ceaușescu. 

Il Fratello numero uno pensò sempre di star procedendo sulla retta via, benché, nel ’75, persino Mao Zedong, ormai prossimo alla morte e di certo non un santo, gli consigliò di ravvedersi dal mettere in atto misure tanto drastiche. 

Di tutta risposta, Pol Pot affermò che “lo stendardo della rivoluzione cinese è rimasto issato per molto tempo, ma ora è sbiadito e vacilla”. Convinto anche della necessità di rendere la Cambogia indipendente da chiunque, Pol Pot allontanò tutti e tre i potenziali alleati di cui avrebbe disposto, cioè Unione Sovietica, Repubblica Popolare Cinese e Vietnam ora unificato. 

Mentre i primi due, pure in contrasto ideologico, fungevano da eminenze grigie, il Vietnam venne indicato come un regime imperialista. La realtà è che, dopo la presa di Phnom Penh, i Khmer rossi non avevano definito confini chiari per la Kampuchea Democratica, e Hanoi avrebbe voluto ottenere il possesso delle sponde del fiume Mekong, un fiume che ancora oggi è una preziosa risorsa idrica per entrambe le nazioni. Migliaia di Viet Minh stazionavano infatti nella giungla, pericolosamente vicini alla capitale cambogiana, e nel nord-est del paese. E così, ansioso di cercare un capro espiatorio per non far risaltare il fallimento del proprio esperimento rivoluzionario, alla fine del ’77 il Fratello numero uno ordinò all’esercito khmer di compiere raid nella giungla e assaltare gli accampamenti vietnamiti. Negli ultimi sei mesi del ’78, Son Sen ordinò l’esecuzione sommaria di circa 100mila persone nella Cambogia orientale, tra cui un imprecisato numero di vietnamiti. Ta Mok, il macellaio, ne fece uccidere più del doppio, giusto per rispetto al proprio soprannome. L’escalation fu rapida, dettata dalla fretta, dalla paranoia, e dunque dalla mancanza di raziocinio. Il 25 dicembre del ’78, il Politburo vietnamita rispose con la forza e lanciò un’invasione su larga scala della Cambogia. In sole due settimane, 150mila soldati vietnamiti conquistarono Phnom Penh e posero fine alla folle progetto di Pol Pot. 

Se però pensate che quest’epopea sia giunta al termine, vi sbagliate. Appena invasa la Cambogia, il Vietnam vi impose un proprio Stato fantoccio, del quale affidò il controllo agli ex soldati khmer dissidenti che durante gli anni precedenti avevano cercato riparo ad Hanoi. Tra loro c’era tale Hun Sen, un capo di battaglione scappato nel ’77. Ci tornerà utile a breve. 

Fatto sta che da un momento all’altro si palesò il rischio di un sud-est asiatico pericolosamente occupato per intero dal Vietnam. La situazione destò particolare preoccupazione in quel di Pechino. Concedere troppa libertà ad Hanoi significava potenziare il suo partner numero uno, cioè l’Unione Sovietica. Così, nel febbraio del ’79, Deng Xiaoping ordinò l’invasione del nord del Vietnam. Ne scaturì un conflitto che durò un solo mese. 

Eppure, fu una manna dal cielo per i Khmer rossi, che, con minore pressione addosso, poterono riorganizzarsi nell’ovest della Cambogia. Ora, quanto sto per dirvi potrà sembrarvi controintuitivo, ma ricordate di ragionare in ottica di mero opportunismo. 

L’invasione vietnamita permise al mondo di venire a conoscenza delle atrocità commesse dal regime di Pol Pot. I giornalisti del Washington Post, tra cui Elizabeth Becker, presero a pubblicare le prime evidenze e testimonianze del genocidio. Ciononostante, la comunità internazionale percepì l’attacco del Vietnam come l’ennesima trama dei sovietici per vincere la Guerra fredda. La Casa Bianca mostrò effettiva solidarietà ai Khmer rossi, con quella che il Washington Post definì hold-your-nose diplomacy, la diplomazia del tapparsi il naso. 

Pol Pot si affrettò ad eliminare ogni prova della propria colpevolezza. Divorziò dalla moglie, Khieu Ponnary, alla quale fu diagnosticata la schizofrenia. Abbadonò l’uniforme nera, ordinò la fine delle esecuzioni e della collettivizzazione, e cambiò p ersino pseudonimo in Phem, il nome di suo padre. Poi, il colpo di grazia, forse la più ridicola e allo stesso tempo triste delle beffe. 

Nel novembre del ’79, re Norodom Sihanouk, fuggito dalla Cambogia dopo l’invasione vietnamita, parlò alle Nazioni Unite, in quanto persona autorevole, e indicò il vero nemico: non Pol Pot, bensì il Vietnam. [Mosconi: Ma bisogna essere degli stro*zi però eh]

Quello stesso mese, l’Assemblea dell’Onu decretò che i Khmer rossi dovessero essere ancora il governo legittimo della Cambogia. 

Per dieci anni, fino all’89, 40mila soldati continuarono a combattere in una Cambogia devastata non più per l’ideologia rivoluzionaria, ma per una nuova liberazione nazionale contro il Vietnam, spalleggiati anzitutto dalla Thailandia, a sua volta sostenuta dagli Stati Uniti. 

Gli States infatti, ancora una volta, suggerirono ai Thailandesi di lasciar utilizzare ai Khmer Rossi le loro basi per meglio organizzare le manovre contro il governo fantoccio che il Vietnam aveva imposto. L’operazione fu motivata non solo per motivi strategici, ma anche come ritorsione e vendetta per la sconfitta della guerra conclusa 3 anni prima. A questo scopo, l’amministrazione Carter versò milioni di dollari e inviò aiuti ai Khmer Rossi, per tramite del Kampuchean Emergency Group a Bangkok. Lo stesso Sihanouk riconobbe la presenza di consiglieri della Cia negli accampamenti dei Khmer rossi alla fine degli anni 80. Nella sostanza dei fatti l’ipocrisia made in USA era sempre la solita: condannare pubblicamente l’operato dei Khmer, ma aiutarli sottobanco per non voler pagare lo scotto della fallimentare Guerra in Vietnam

Il supporto logistico incancrenì più del dovuto il conflitto in Cambogia, prolungandolo più di quanto fosse necessario. Nell’85, Pol Pot si dimise da comandante in capo delle forze khmer, allontanandosi sempre più dalla vita politica. Lo fece sicuramente per ripulirsi e non essere associato allo sterminio di innocenti. Ciononostante, la mezzanotte del Fratello numero uno tardò a scoccare. Con la caduta del muro di Berlino, anche il Vietnam, conscio di non poter più godere del supporto dell’Unione Sovietica, mollò la presa sulla Cambogia e concordò un cessate il fuoco con i Khmer rossi. Tra il ’90 e il ’92, l’Onu cercò di risolvere la situazione pacificamente e favorire una transizione democratica. Convocò quindi al tavolo delle trattative di Phnom Penh le tre principali personalità cambogiane del momento. La prima: Khieu Samphan, in rappresentanza di Pol Pot. La seconda: Hun Sen, il disertore divenuto primo ministro della Cambogia sotto il controllo vietnamita. La terza, ancora una volta, l’ennesima: Norodom Sihanouk. No, basta, qualcuno può togliere dalla scena questo qui per favore? 

I colloqui portarono a nuove elezioni democratiche, da tenersi nell’estate del ’93. Fatto sta che, al sentire il termine “elezioni democratiche”, i Khmer rossi le boicottarono, e si ritirarono nuovamente nella giungla. Le schede scrutinate decretarono una doppia vittoria, quella di Hun Sen, e quella di Sihanouk. Hun Sen divenne primo ministro e Norodom Sihanouk venne incoronato re per la… boh, ormai ho perso il conto. Sihanouk ha mantenuto il trono fino al 2004, quando abdicò in favore del figlio Norodom Sihamoni, l’attuale sovrano di Cambogia. Norodom Sihanouk è morto il 15 ottobre 2012, in un ospedale di Pechino, dove era ricoverato per un cancro al colon. Credo sia morto. Anche se potrebbe sempre tornare e incoronarsi. Ad oggi, il primo ministro cambogiano è ancora Hun Sen che, il 4 marzo 2023, ha condannato a 27 anni di prigione il principale leader dell’opposizione. 

La legge dell’eterno ritorno, insomma. Ma parleremo della cambogia attuale in un video futuro. Chissà, magari un reportage? Sogniamo. Non costa nulla. Ebbene, credo che sia arrivato il momento di tirare le somme. 

Già nel ’77, i giornalisti John Barron e Anthony Paul pubblicarono sulla rivista Reader’s Digest delle interviste intrattenute con rifugiati cambogiani, e stimarono che, a quel punto, i Khmer rossi avessero sterminato più di un milione di persone. Nel ’78, il prete cattolico François Ponchaud, che fu testimone dei primi anni di atrocità nelle campagne cambogiane, pubblicò il libro Cambogia: anno zero

Eppure, quello stesso anno, cinque ragazzi appartenenti a un’associazione maoista svedese visitarono la Kampuchea Democratica, riportarono l’efficacia della rivoluzione in atto, e come questa fosse un modello da seguire. In sostanza, non videro nulla. Realizzarono anche un documentario dal nome inquietante: il Sorriso di Pol Pot, Polpots Leende. 

Noam Chomsky, ad esempio, sostenne nel ’77 che la realtà dei fatti fosse stata ingigantita per fungere da propaganda statunitense anticomunista. Sicuramente i media occidentali polarizzarono il dibattito adducendo la colpa a un generico “comunismo”. Ed è vero, quei due milioni di cambogiani, in gran parte, morirono come conseguenza di politiche economiche del tutto fallimentari. 

Ciò non toglie che, quelle persone, morirono per colpa dei Khmer rossi. Ci sono prove, evidenze inconfutabili, dalle fosse comuni alle prigioni, storie di donne, uomini e bambini che hanno vissuto un inferno in terra. 

Ora, potremmo fare mille discorsi sulle colpe di Vietnam, Francia, Stati Uniti, Russia (all’ e compagnia cantando.  Gli anni del genocidio coprono un periodo che va dal ’75 al ’79, e la responsabilità ricade tutta sulle spalle di Pol Pot e del Partito Comunista, non c’è dubbio. Tuttavia, una Cambogia in balìa di interessi stranieri, occidentali e non, della politica internazionale e dell’ego di Sihanouk, ha visto altre decine di migliaia di vittime, prima e dopo l’orrendo esperimento della Kampuchea Democratica. Tutto sulle spalle di persone che avevano l’unica colpa di essere pedine di un gioco perverso. Punto. E qui la domanda sorge spontanea: che fine hanno fatto, i Khmer rossi? Tra il ’93 e il ’97, 4mila soldati continuarono ad agire come gruppo ribelle ai confini con la Thailandia. “Non possiamo durare così a lungo”, confessò Pol Pot a Ieng Sary. Fu una chiara presa di coscienza, da parte di un uomo che, solo alla fine della sua meschina esistenza, era tornato ad essere Saloth Sâr, pallido, consumato dal cancro e paralizzato per metà per via di un ictus.

Nel ’96, il Fratello numero tre, Ieng Sary, si consegnò al governo cambogiano e ricevette il permesso di vivere da libero cittadino al confine con la Thailandia, in attesa di un processo. 

Tutta questa è una storia che non può che terminare malissimo:

nel ’97, Saloth Sâr capì che i suoi vecchi compagni di partito volevano tradirlo. Fece dunque assassinare Son Sen, il Fratello numero 89, assieme a tutta la famiglia. 

Poco tempo più tardi, Ta Mok e Nuon Chea si ribellarono al loro vecchio leader, Saloth Sar, e lo confinarono nella giungla di Anlong Veng, sede dell’ultimo campo dei Khmer rossi. 

Il giornalista americano Nate Thayer fu invitato da Ta Mok in persona ad assistere al processo del Fratello numero uno. Secondo Thayer, Ta Mok e Nuon Chea lo scelsero come testimone indipendente per scagionarsi dai loro crimini e dimostrare che sì, proprio loro, avevano messo dietro alle sbarre Pol Pot, il “mostro”. 

In ottobre, a Thayer viene concesso di intervistare un decrepito Saloth Sâr. “Voglio farti sapere”, bisbigliò Saloth, “che ho fatto quel che ho fatto per la rivoluzione, per il nostro paese, non per uccidere i cambogiani. Guardami, ora. Pensi che io sia una persona cattiva? La mia storia è la storia del nostro movimento […] mi pento di non essere stato in grado di controllarlo fino in fondo”. 

Il 15 aprile 1998, Saloth Sâr muore di infarto in una capanna nella giungla. Senza mai aver scontato una pena e, probabilmente, senza rimorso. 

Nuon Chea e Khieu Samphan si arresero volontariamente all’esercito cambogiano. Fu garantita loro l’immunità temporanea. Ta Mok, l’unico a non arrendersi, venne imprigionato nel ’99. [silvani: siete tre str**zi]

La storia di oggi si chiude purtroppo con l’amaro in bocca. Nel 2001, l’Onu e il governo cambogiano istituirono un Tribunale Speciale per la Cambogia. L’obiettivo era quello di punire unicamente i piani alti del Partito Comunista di Kampuchea. La spiegazione? Indagini troppo invasive avrebbero potuto generare una nuova guerra civile, e ormai tutti gli ex soldati khmer stavano venendo reintegrati nella società. Certo, sarebbe stato impossibile punire tutti i responsabili. Ma quel che ne è venuto fuori assomiglia più che altro a una presa per i fondelli. 

La prima accusa del Tribunale venne mossa il 31 luglio 2007 a Kang Kek Iew, il sovrintendente dell’S-21. Kang si dichiarò pentito, e ammise di aver fatto uccidere almeno 16mila persone. Più avanti, però, riferì di aver agito sotto pressione di un partito criminale, e chiese di venire rilasciato. La condanna definitiva è arrivata unicamente nel 2018. Kang è morto tre anni fa, il 2 settembre 2020. Ieng Sary, Nuon Chea e Khieu Samphan sono stati arrestati nel novembre 2007. Fino a quel momento, hanno vissuto in lussuose ville circondate dal filo spinato. Ieng Sary è stato incriminato di genocidio nel 2009. È però deceduto il 14 marzo 2013, prima che la corte emettesse un verdetto. Nuon Chea e Khieu Samphan sono stati gli ultimi leader dei Khmer rossi a essere stati condannati per sterminio e crimini contro l’umanità…nel 2018. Nuon Chea è morto un anno dopo, nel 2019, alla veneranda età di 93 anni. Khieu Samphan è invece ricorso in appello. La sua sentenza è stata confermata il 22 settembre 2022. Si tratta dell’ultimo capo dei Khmer rossi ancora in vita. Con un costo totale di 330 milioni di dollari, il Tribunale Speciale per la Cambogia sta per chiudere i battenti, avendo emesso unicamente tre condanne. Il potere dell’omertà e dell’ostruzionismo. Ovviamente, si tratta di un argomento difficile da districare. Come si giudica qualcuno che ha agito per paura di subire ripercussioni non solo per sé, ma per tutta la sua famiglia? 

L’eredità del genocidio è ancora vivida, tra i cambogiani. Scuole e centri d’informazione sono stati autorizzati solamente da una decina d’anni a parlarne apertamente, alcuni centri di detenzione sono stati trasformati in musei, come l’S-21. Il corpo di Pol Pot, cremato, è sepolto nel villaggio di Choam Sa-Ngam. Persone del posto, ma anche provenienti dal resto della Cambogia, percepiscono incredibilmente questo luogo come un santuario, vi offrono cibo, e sono convinte che lo spirito di Pol Pot sia in grado di curare la malaria, e in generale di portare fortuna. In fin dei conti, ritengono, il Fratello numero uno si è sempre schierato a favore dei contadini. Sicuramente, il rapporto dei cambogiani con il loro passato è complicato, frutto di storie ed culture variegate, diverse, contrastanti. In chiusura giova ricordare ciò che riferì la seconda moglie di Pol Pot, tale Muon, allo stesso giornalista americano Thayer: “vorrei far sapere al mondo che mio marito era un brav’uomo”. Ecco, dissentirei sul “bravo”, ma sicuramente Saloth Sâr era un uomo. Non il diavolo, né un dio. E questo penso sia ancora peggio. Sapere che a capo di tutto questo sistema vi era un uomo, e intorno a lui tanti altri piccoli seguaci. Il male, come ricorda Hannah Arendt, è banale. È la mancanza di idee a far sì che si propaghi, ma è anche la presenza delle stesse a generarlo. Per aspera.