De-dollarizzazione: il dollaro sta perdendo il suo ruolo di moneta regina?

Categorie

Ascolta il Podcast di Nova Lectio

Ultimamente si sente sempre più di de-dollarizzazione, cioè della volontà di paesi come Cina e Russia di ridurre la loro dipendenza dal dollaro e dagli Stati Uniti. Il dollaro è la valuta più scambiata al mondo, nonché la più posseduta dalle banche centrali del pianeta. Che margine c’è affinché il dollaro perda la sua importanza?

Con un PIL che si aggira sui 25 mila miliardi di dollari, Gli Stati Uniti sono la più grande e stabile economia del pianeta. Di conseguenza, il dollaro è la valuta considerata più solida, e quasi il 90% delle transazioni globali avviene in dollari. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il 58% della moneta posseduta dalle riserve statali di tutto il mondo è espressa in dollari. La Banca d’Italia, ad esempio, detiene in dollari – e non in euro – più del 60% delle sue riserve. Vediamo cosa vuol dire. 

Nel sistema monetario internazionale moderno le principali valute sono fluttuanti. In altre parole, il loro valore sul mercato varia in base alle altre monete estere. Per fare un esempio pratico, se andaste in vacanza a Boston e voleste comprare una divisa dei Patriots che costa 130 dollari, dovreste pagarla circa 120 euro. Questa magia si chiama tasso di cambio, e influisce sul costo di beni e servizi. 

Le monete, però, possono indebolirsi, magari in seguito a una crisi economica. Se accadesse all’euro, quei 130 dollari per la divisa dei Patriots equivarrebbero anche a 140 euro, non più a 120. Ma in questi casi quel che è peggio è che, per uno Stato, acquistare materie prime dall’estero risulterebbe insostenibile. Difatti, importazioni più onerose si traducono in inflazione, aumento del costo della vita, e perdita di potere d’acquisto. 

Dal momento che gli Stati Uniti rappresentano il mercato più grande del mondo, non è cosa buona che una moneta si indebolisca troppo rispetto al dollaro. Anzi, le banche centrali mantengono sempre delle riserve in dollari perché in situazioni di crisi possono investirle per sostenere il tasso di cambio. 65 Stati nel mondo, invece, ritengono conveniente ancorare la propria moneta al dollaro. 

Ancorare una valuta a un’altra significa concordare un tasso di cambio che rimane fisso, e quindi salvaguardare la competitività di beni e servizi. Diverse isole caraibiche come Aruba, Bahamas e Bermuda hanno ancorato la loro moneta al dollaro perché la loro fonte di reddito principale deriva dal turismo, pagato in dollari. Bahrein, Arabia Saudita, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti hanno fatto la stessa scelta, ma per scambiare petrolio. 

Ci si può fidare talmente tanto degli States e del dollaro da adottarlo come moneta nazionale. Attualmente, hanno intrapreso questa strada ben 11 Stati, tra cui figurano – oltre a Ecuador ed El Salvador – anche gli improbabili Timor Est e Zimbabwe. In quest’ultimo caso, il dollaro zimbabweano è stato rimpiazzato con il dollaro statunitense nel 2009, in seguito a un’iperinflazione che l’aveva reso praticamente inutilizzabile. Pensate che, a un certo punto, la zecca di Harare coniò una banconota da centomila miliardi… che valeva 40 centesimi di dollaro. 

Perciò, sì, il dollaro è davvero fortissimo. O meglio, questo è quel che si pensava fino a qualche anno fa, quando si è cominciato a discutere di de-dollarizzazione. Con questo termine si intende la volontà di alcuni grandi paesi, spesso anti-occidentali – su tutti Cina e Russia – di ridurre la loro dipendenza dagli Stati Uniti e, dunque, dal dollaro, non utilizzandolo né come valuta di scambio, né come valuta di riserva. Se il processo di de-dollarizzazione viaggiasse a ritmo sostenuto, il dollaro verrebbe presto rimpiazzato come principale moneta mondiale, causando una forte incertezza sui mercati mondiali. Fermi. Cos’è che sta andando storto?

Innanzitutto, la quota di dollari posseduta dalle banche centrali non è mai stata così bassa da 25 anni a questa parte. Basti pensare che agli inizi degli anni 2000, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le riserve espresse in dollari in giro per il mondo ammontavano al 70% del totale. Con la guerra in Ucraina, la Federal Reserve, la banca centrale degli States, ha impedito di acquistare il petrolio e il gas russo in dollari. Come conseguenza, l’India ha cominciato a pagarlo in rupie e rubli, la Cina in renminbi. Quale moneta potrebbe sostituire il dollaro?

Partiamo dall’euro. L’euro è la seconda moneta più posseduta dalle banche centrali, con una quota che ammonta al 20% del totale. Lo utilizzano 27 Stati europei, e al suo valore sono ancorate anche il Franco CFA, valuta ufficiale in 14 paesi africani, e le monete delle Isole Comore, di Capo Verde, Sao Tomè e Principe e Marocco. Tuttavia, è abbastanza improbabile che, nel breve periodo, i paesi dell’Unione Europea decidano unitariamente di de-dollarizzare la propria economia. Allo stesso modo, la sterlina britannica e lo yen giapponese, le cui quote nelle riserve internazionali ammontano rispettivamente a circa il 5% del totale, non possono minimamente impensierire il dollaro.

Passiamo quindi al nemico numero uno: il renminbi. Noto anche come yuan, che in realtà è la sua unità base, il renminbi è letteralmente la “valuta del popolo” cinese. Al cambio attuale, uno yuan equivale a 14 centesimi di dollaro, e meno del 3% delle riserve valutarie internazionali è espresso in renminbi. Con 18 trilioni di dollari, la Cina è la seconda economia mondiale e il secondo paese più popoloso. 

Negli ultimi 15 anni, il renminbi è passato dall’essere inutilizzato in ambito internazionale al venire impiegato nel 7% delle transazioni globali. Ciò è accaduto sia grazie all’arcinota Nuova Via della Seta, sia perché le nazioni che vorrebbero scalzare l’egemonia occidentale vedono nella Cina l’unico serio competitor degli Stati Uniti. 

Con lo scoppio del conflitto in Ucraina, in molti sono passati dalla parte di Pechino. Non poter acquistare il petrolio russo in dollari è un vero e proprio dramma, perché la Russia è il terzo produttore di greggio al mondo, gli Stati Uniti sono il primo, e il mercato dell’oro nero ruota proprio attorno al verdone. Ecco perché si sentono spesso citare i famosi petrodollari. 

Non a caso, l’anno scorso Vladimir Putin ha sostenuto che Washington sta armando” il dollaro, lo sta sfruttando come una potente arma geopolitica di ricatto. Sulla scorta di questa dichiarazione, qualche mese fa Xi Jinping ha annunciato di voler detronizzare il dominio globale del verdone. 

Lo scorso marzo, Banco BOCOM BBM, il principale servizio bancario brasiliano, ha firmato un accordo con la Repubblica Popolare per esportare cibo e minerali in Cina e ricevere in cambio renminbi. Sembra una mossa sensata, perché un real brasiliano equivale a 1,5 yuan, e Pechino è il principale partner commerciale di Brasilia. Anche Argentina e Bolivia vorrebbero utilizzare il renminbi, per via della mancanza di dollari nelle loro riserve. Paesi del sud-est asiatico come Bangladesh e Laos commerciano già in renminbi con la Cina, mentre l’Egitto vuole introdurre la moneta di Pechino per diversificare i propri titoli di Stato. 

Da ormai cinque anni, l’Angola, secondo produttore di petrolio africano, vende oro nero alla Cina in cambio di renmimbi. Nell’arco dell’ultimo anno, invece, Xi Jinping ha mostrato interesse nei confronti dei Paesi del Golfo, tanto che a marzo 2023 si è conclusa la prima transazione in renminbi per gas naturale importato in Cina dagli Emirati Arabi Uniti. In più, un mese prima l’Iraq aveva autorizzato la valuta cinese per pagare le sue importazioni. 

Sempre a marzo 2023, Saudi Aramco, la compagnia nazionale saudita di idrocarburi, ha garantito la fornitura di 500mila barili di petrolio al giorno, per venti anni, alla cinese Zhejiang Petrochemical Corp. Ciò significa che la Cina pagherà il petrolio saudita in renmimbi. Il problema è che Riyad, storicamente alleata degli States, è il primo fornitore di greggio per la Cina, e Pechino è la principale destinazione delle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita. In sintesi, presto il renminbi potrebbe sostituire il dollaro come valuta regina per lo scambio di petrolio.

Per il Financial Times e Bloomberg, che il renminbi diventi la valuta di riferimento internazionale è pura fantasia. In generale, la de-dollarizzazione richiederebbe che banche, aziende, investitori e Stati decidessero contemporaneamente di modificare moneta di scambio. Il paragone tra le transazioni in dollari e in renminbi è impietoso. Tutt’al più, certi paesi vogliono utilizzare altre monete per “risparmiare” dollari, ritenuti comunque stabili e necessari.

Il verdone rappresenta la maggior parte delle riserve valutarie del Fondo Monetario Internazionale, che concede prestiti alle nazioni in difficoltà. Nondimeno, la quota mondiale di dollari nelle banche centrali è ancora irraggiungibile. Come ritiene l’economista George Magnus, negli ultimi venti anni questa quota è diminuita dal 70 al 58% non a causa dell’ascesa del renminbi o del rublo, quanto piuttosto di monete come i dollari canadesi e australiani, la corona svedese, o il won sudcoreano. 

Se così stanno le cose, nulla vieta di credere che nel lungo periodo l’egemonia della moneta americana venga non sostituita, ma semplicemente frammentata. Di recente, i BRICS hanno accolto tra le loro fila Iran, Arabia Saudita, Egitto, Argentina, Emirati Arabi Uniti ed Etiopia. Secondo le proiezioni del FMI, nel 2028 i BRICS rappresenteranno un terzo dell’economia mondiale, contro il 28% che andrà a ricoprire il blocco del G7. Secondo Putin, la dedollarizzazione dei BRICS è irreversibile. 

Al momento, la proposta della moneta comune BRICS avanzata da Lula non pare realistica, ma il renminbi potrebbe tranquillamente diventare la valuta di riferimento di un blocco alternativo all’Occidente. Più concreto è il progetto mBridge, che una volta realizzato vedrebbe le banche centrali di Hong Kong, Thailandia, Cina ed Emirati Arabi Uniti condurre transazioni in una valuta digitale comune.

In definitiva: la de-dollarizzazione è soltanto un’ipotesi. E voi, cosa ne pensate? Storicamente, ogni sistema internazionale ha avuto un’ascesa e un declino. Oggi come oggi, in che fase ci troviamo?